Non sono riusciti a contenere il contagio del COVID, per una sanità allo sfascio e per la sete dei profitti degli industriali, e ora vorrebbero contenere il contagio dell’insubordinazione sociale. Il DPCM del 26 aprile che, in continuità con i precedenti decreti, apre la Fase-2, conferma il carattere coercitivo e reazionario dello Stato italiano, che come comitato di affari dei padroni, una volta portato a casa il risultato di assicurare la produzione agli industriali, si accinge a creare le condizioni affinché essi non vengano disturbati dalla lotta di classe degli sfruttati, invocando la responsabilità individuale e l’amor patrio. Una scommessa al buio e rischiosa per la pelle dei lavoratori e delle lavoratrici (al riguardo segnaliamo gia’ qui degli articoli ed un’inchiesta relativi alla Piaggio di Pontedera, alla Fincantieri di Monfalcone e alla Dalmine di Bergamo), e per le loro libertà sindacali e di associazione. Ma rischiosa anche per i capitalisti e i loro funzionari esecutivi.
Operai e operaie possono stare alla catena, senza “distanziamento sociale”, ma non possono farlo in assemblea un metro gli uni dagli altri e con le mascherine. Le persone in fila al supermercato distanziate di un metro le une dalle altre e con le mascherine non configurerebbero un assembramento. Perché analoghe possibilità, con le stesse modalità, sono vietate se si tratta di incontrare amici, o di manifestare per le proprie necessità e diritti?
Con il DPCM del 26 aprile, che lancia la c.d. Fase 2, il Governo si assume il rischio dell’apertura di altri settori, ritiene che si deve entrare in una fase di convivenza con il virus, e che occorrerà tenere sotto controllo la curva epidemiologica, con la consapevolezza che mandando altri milioni di lavoratori a lavorare, ci saranno altri contagi e altri morti.
Comprimere le altre occasioni di socialità, in una fase in cui milioni di lavoratori tornano a lavorare per le esigenze produttive e di profitto dei capitalisti, è solo una scommessa criminale e dispotica, per fare in modo, da un lato, che il Sistema Sanitario Nazionale possa reggere l’impatto dei nuovi contagi, dei nuovi ricoveri e dei nuovi morti, e per creare dall’altro le condizioni di limitazione delle libertà individuali e collettive affinché i padroni non vengano disturbati nell’attuazione dei loro piani di rilancio, impedendo qualsiasi manifestazione di dissenso e di lotta.
Agli operai e alle operaie delle fabbriche, dei magazzini e dei tanti altri luoghi di lavoro che già lavorano e rischiano di ammalarsi, dal 4 maggio si andranno ad aggiungere quelli/e che erano rimasti/e ancora esclusi/e del settore manifatturiero, della grande distribuzione all’ingrosso, del settore edile. Per non parlare del graduale ritorno a muoversi e a lavorare negli uffici da parte dei lavoratori e delle lavoratrici del pubblico impiego (Ministeri, Regioni, Comuni, etc.).
[Ci fa notare una compagna, correggendoci, che nel pubblico impiego si effettua tuttora, per lo più, il lavoro da casa, ribattezzato “smart working” (con costi e a carico dei dipendenti e risparmi per la p.a.), perché per il ritorno in ufficio sono stati posti “dei parametri talmente rigidi, che, se fossero applicati alle fabbriche, le fabbriche non riaprirebbero mai” – una notazione, questa, molto interessante.]
La mobilità e l’ulteriore presenza nei luoghi di lavoro (ormai riaperti all’80-90%) produrrà inevitabilmente un aumento dei contagi, e il cinico, criminale ragionamento sotteso alla Fase-2 è porre limitazioni alla socialità che possano attutire l’aumento dei contagi e delle morti che inevitabilmente si produrranno per le esigenze della produttività sociale della Nazione, tentando, così, di contenere il fenomeno e renderlo un rischio “accettabile” e “compatibile” con le capacità di tenuta dei ricoveri ospedalieri.
Oltre a questa lugubre contabilità dei contagi e dei morti, la Fase-2 sottende le esigenze più complessive di un controllo coercitivo e repressivo sulla società, in un contesto di crisi economica, aumento della disoccupazione, peggioramento delle condizioni di lavoro e di salario di larghe fasce di lavoratori.
Da questo punto di vista il Re è nudo, e si spinge verso una scommessa azzardata.
Per favorire le basi della ripartenza del Paese, oltre a manifestare gli inconfessabili calcoli (da ragionieri della morte) commissionati da Confindustria e avallati dal Comitato degli esperti, sul costo sociale “sopportabile” in termini di ammalati e morti, esorta paternalisticamente “gli italiani” a ricacciare indietro il demone della rabbia e del risentimento, invocando il coraggio e il senso di comunità. Un richiamo ad un codice etico sciovinistico di fedeltà, di responsabilità individuale per la difesa della propria famiglia e della propria Patria, con l’esplicita confessione che vanno aiutati i capitalisti, in quanto la forza lavoro non può essere assistita, ma deve essere messa nella condizione di lavorare per produrre profitti.
Costretti a contagiarsi per lavorare, gli operai, le operaie e la massa lavoratrice nel suo insieme saranno attenzionati e potranno essere sanzionati per legge se adotteranno altri comportamenti sociali che non siano il tirare la carretta per il padrone e tornare a casa.
Infatti, il Dpcm del 26 aprile 2020 consente di poter uscire di casa solo per andare al lavoro, per motivi di salute, per andare a fare la spesa, per necessità di fare visita ai propri congiunti, o per svolgere attività sportiva e motoria all’aperto. In occasione di questi incontri devono essere rispettati: il divieto di assembramento, il distanziamento interpersonale di almeno un metro e l’obbligo di usare le mascherine per la protezione delle vie respiratorie. In ogni caso, tutti gli spostamenti consentiti sono soggetti al divieto generale di assembramento, e quindi all’obbligo di rispettare la distanza di sicurezza minima di un metro fra le persone.
Nel dispositivo messo a punto dall’accoppiata governo/padroni, quindi, gli operai e le operaie devono dimostrare amor di patria, non provare risentimento per quello che stanno vivendo e che sono costretti a subire sui luoghi di lavoro, calare la testa, lavorare e non lamentarsi. Il tragitto della loro esistenza deve essere famiglia – fabbrica – famiglia.
Un’imposizione coercitiva per i lavoratori e le lavoratrici fuori dai luoghi di lavoro, mentre sui luoghi di produzione e di lavoro il “distanziamento sociale” diventa un semplice dettaglio – un dettaglio facilmente superabile per i padroni che già in questi mesi, in grande numero, non hanno rispettato i vecchi protocolli di sicurezza siglati con il governo e Cgil-Cisl-Uil. Per cui in fabbrica o in magazzino gli operai e le operaie possono stare alla catena, senza neanche il “distanziamento sociale” per il contenimento del COVID-19, ma non possono farlo in assemblea distanziati/e un metro gli uni dagli altri e con le mascherine.
Una coercizione che lede radicalmente la libertà di movimento individuale e collettiva, i tanto strombazzati diritti democratici fondamentali. Una limitazione degli spostamenti dentro la sfera della produzione e della riproduzione sociale del tutto vincolata alle esigenze della valorizzazione capitalistica e garantita dallo Stato.
Divieto di assembramento significa obbligo di rispettare il distanziamento di un metro, che ha una base di spiegazione nel contenimento sanitario. Allora perché non consentire altri tipi di spostamento, sempre nel rispetto delle distanze e della dotazione di dispositivi di protezione individuali, come le mascherine?
Ad esempio, le persone in fila al supermercato distanziate di un metro le une dalle altre e con le mascherine non configurerebbero un assembramento dal punto di vista dell’esigenza sanitaria del contenimento del COVID-19. Perché allora analoghe possibilità, con le stesse modalità, sono vietate se si tratta di incontrare amici, o di manifestare per le proprie necessità e diritti? A meno che, s’intende, non si tratti di manifestazioni organizzate dalla Meloni e simili, o delle proteste dei commercianti di Mestre e Jesolo, loro liberissimi di sfilare in corteo negli stessi luoghi vietati ai Comitati dei compagni di Marghera il 1° maggio.
Perché è possibile lavorare, mangiare, incontrare parenti ed è vietato parlare ed esprimere opinioni e organizzarsi sui propri interessi di classe, pur se nel rispetto delle regole di distanziamento?
A questo punto, è evidente, toccherà alla classe proletaria, alle sue organizzazioni sindacali indipendenti dalla borghesia, conquistare la propria libertà di associazione e di movimento, denunciare le condizioni di insicurezza in cui sono costretti dagli industriali e dal governo a lavorare, e tutte le inadempienze formali e sostanziali della classe padronale rispetto allo stesso nuovo Protocollo siglato il 24 aprile, e tutt’altro che adeguato – tra l’altro – alla tutela della salute dei lavoratori.
La deputata Chiara Gribaudo, referente nazionale del Pd per le politiche del lavoro, ha proposto di assumere 10 mila ispettori del lavoro per poter assicurare la ripresa in sicurezza – una proposta di legge accolta molto male dal centro-destra e dalle istanze confindustriali, che testimonia come nella classe operaia vi siano ancora tanti malumori di cui tenere conto. Dinanzi agli attacchi del fronte padronale, la deputata democratica ha chiarito subito che la sua proposta non vuole assolutamente vessare le imprese; anzi, il personale preposto alle ispezioni del lavoro “accompagnerebbe” le imprese e l’amministrazione pubblica nel realizzare le misure di prevenzione adottate al contesto di lavoro per poi procedere a verificarne l’attuazione. Non una repressione degli imprenditori, quindi, ma una costruzione consensuale di piani di sicurezza da adattare alle diverse realtà produttive.
In questo modo lo Stato, qualora fosse necessario, si farebbe garante in prima persona degli interessi imprenditoriali, incluso quello alla pace sociale. I padroni vorrebbero invece mano libera senza l’intervento dello Stato; lo Stato potrebbe servire solo qualora gli industriali e Cgil-Cisl-Uil non riuscissero a tenere a bada i lavoratori.
La proposta di Gribaudo, probabilmente proprio su pressione di Cgil-Cisl-Uil, va nella direzione di affermare un ruolo del governo e dei sindacati nel rilancio della produzione “in condizioni di sicurezza”. Dinanzi alle prevedibili pressioni operaie per vere condizioni di sicurezza, in prospettiva, potrebbero essere utili alle imprese (anche prevenendo conflitti) gli avalli formalizzati dagli ispettori del lavoro – magari con pochi, piccoli aggiustamenti marginali.
Non sono tanto le grandi e medie imprese più attrezzate a temere pericoli e “vessazioni stataliste”, perché sono loro a dettare le regole del gioco; le più preoccupate da una simile presenza sono le imprese più piccole, difese a spada tratta da Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia.
In questo contesto, toccherà alla massa operaia vigilare, mettere il fiato sul collo agli industriali, grandi, medi e piccoli che siano, usare l’arma dello sciopero, il blocco improvviso della produzione, per difendere la propria salute e impedire altri contagi e altre morti.
E insieme alla massa operaia e agli altri lavoratori, toccherà anche agli organismi politici che alla classe lavoratrice si rivolgono e ai militanti solidali rompere lo schema imposto delle violazioni delle libertà di associazione e manifestazione, affermando nei fatti la possibilità di esercitare i diritti politici e sindacali strappati con le lotte dalla classe, pur nel rispetto delle norme sul distanziamento fisico per il contenimento del COVID-19.
E questo esercizio servirà anche a denunciare la falsa coscienza di una società a rotoli, in cui sono proprio il governo e la Confindustria ad aver messo in piedi la farsa del “distanziamento sociale” nei luoghi di lavoro, dove ci sono garanzie per i lavoratori solo ed esclusivamente sulla carta. E a denunciare il fenomeno del mancato rispetto del contenimento sanitario da parte della quasi totalità della classe padronale che fa il bello e il cattivo tempo, e che è la prima responsabile della diffusione del virus, insieme al sistema dei partiti istituzionali che ha tagliato in questi anni la spesa sanitaria.
La classe proletaria e tutta la società si ritrova pure ad essere vincolata nei suoi legami affettivi e sociali, con la possibilità di incontrare solo “i coniugi, i partner conviventi, i partner delle unioni civili, le persone che sono legate da uno stabile legame affettivo, nonché i parenti fino al sesto grado”.
I proletari e le proletarie – come già hanno cominciato a fare negli scorsi mesi, ed in particolare con le due giornate di lotta del 30 aprile e del 1° maggio indette da SI Cobas e Adl Cobas – rivendicheranno la loro agibilità sindacale e di libertà di associazione, e il loro duraturo legame affettivo con la propria classe! E se la riprenderanno in fabbrica, nei magazzini e nelle strade. Non si canteranno messe, se ai proletari non sarà data la possibilità di libertà di associazione politica e sindacale.
I proletari e le proletarie – questo è certo – torneranno a incontrarsi, a manifestare, a svolgere la loro storica “attività motoria” all’aperto, pur se (fisicamente) distanziati di un metro con le mascherine! Troveranno il modo di “assembrare” di nuovo le loro forze, per quanti divieti gli si voglia imporre.
È proprio la paura del contagio dell’insubordinazione sociale ad agitare la borghesia, un sentimento che durerà a lungo. Anche se essa riuscirà a spazzare via le prime ondate di rivolta, il moto delle lotte tornerà più forte e cosciente, come già sta iniziando ad accadere in tutto il mondo.