Ecco perché il sistema bancario sta andando in pezzi, di Michael Hudson (con una nota della redazione)

Questo perché non doveva esserci contagio, essendo il sistema bancario europeo al sicuro. Al contrario, in pochi giorni la crisi bancaria avviata dal crollo della californiana SVB ha fatto la prima vittima illustre, molto illustre, in Europa: Credit Suisse è arrivata ad un passo dal fallimento, evitato solo con un massiccio intervento della Banca Centrale svizzera, dopo che la Saudi National Bank ha rifiutato di sostenere una nuova ricapitalizzazione dell’istituto elvetico. Un altro segnale che la finanza saudita, finora legata molto strettamente al “campo occidentale” sta volgendo il suo sguardo anche in direzione della coalizione imperialista rivale, quella che ha nella Cina e, subordinatamente, nella Russia il proprio centro di gravità. Ed insieme un altro segnale della decrescente capacità degli Stati Uniti di esercitare la propria totalizzante egemonia su quello che è stato per decenni il suo campo: la loro soverchiante potenza militare e la perdurante forza del loro apparato finanziario non sono più in grado di assicurarlo.

L’articolo di Hudson (ce l’ha segnalato A. Pagliarone accompagnandolo con una nota critica che riportiamo qui sotto*) che presentiamo di seguito, mette l’accento su alcuni aspetti dell’attuale crisi bancaria negli Stati Uniti spiegando perché essa non appare per nulla conclusa, e accenna nello stesso tempo ad alcune rilevanti questioni sociali, come la dinamica dei salari americani e il loro legame con le misure della Fed. Uno scenario che ha risvolti simili in Europa e incide sulla politica monetaria della BCE.

La BCE ha rialzato il tasso d’interesse di 50 punti-base (+0,50%), smentendo così le previsioni di un rialzo dimezzato dello 0,25%.

Si conferma invece che “l’inflazione” è al centro delle decisioni della BCE e della FED. Quest’ultima, in particolare, ha detto che il mercato del lavoro negli USA è ancora “troppo ristretto”, cioè che sono leggermente cresciuti i margini dei lavoratori per contrattare salari più alti e questo, per la “cupola” capitalistica, è inaccettabile. Lo spettro dell’inflazione che BCE e FED stanno combattendo è questo: il pericolo che i salari “inseguano” la crescita dei prezzi.

Di qua e di là dell’Atlantico, l’incremento dei salari e “la scala mobile” (cioè quel meccanismo che permette alle retribuzioni di crescere quando vi è stato un aumento dei prezzi) sono al centro delle preoccupazioni e dell’attacco delle classi dominanti. L’unica “scala mobile” che i capitalisti accettano, anzi venerano come un dogma, è quella dei prezzi di vendita delle proprie merci, cioè il loro sacro diritto di trasferire sui prezzi finali gli aumenti dei costi di materie prime e semilavorati che entrano nelle loro produzioni. Per loro non si può nemmeno concepire la riduzione dei margini di profitto, mentre sarebbe del tutto fisiologico (e in linea con la teoria economica borghese, la quale mette in guardia dal fatto che si possa instaurare una “spirale prezzi-salari”) che i lavoratori debbano sopportare la riduzione del potere d’acquisto dei propri salari. Scala mobile dei profitti-svalutazione dei salari: ecco il comandamento a cui obbediscono i capitalisti di tutto il mondo. E che intendono imporre ai proletari con le politiche “anti-inflazione”!

Perseguire tale comandamento ha anche il vantaggio di permettere una maggiore libertà fiscale dei governi e delle politiche monetarie delle Banche Centrali: se i salari non possono recuperare la perdita del loro potere d’acquisto (quindi si riducono in termini reali), anche misure potenzialmente inflattive possono essere intraprese con le spalle coperte, permettendo ai vari settori capitalistici di sollecitare, ad esempio, un allargamento del credito bancario o la sua continuazione.

Questo non vuol dire, però, che i capitalisti o i loro rappresentanti nelle istituzioni (il Tesoro, le Banche Centrali, ecc.) possano comportarsi a proprio piacimento, poiché essi hanno un vincolo nella concorrenza generale fra i capitali e, più in generale, nei meccanismi di funzionamento del sistema. Tanto maggiore e aspra è la concorrenza sul mercato, tanto più grande sarà infatti la difficoltà di trasferire completamente gli accresciuti costi di produzione sui prezzi di vendita (anche se ci si è preventivamente assicurati di bloccare i salari). Un’inflazione fuori controllo (“galoppante”), a sua volta, è un problema per il sistema nel suo complesso, perché sconvolge la possibilità di calcolo economico razionale dei capitalisti e può modificare velocemente i rapporti di forza fra le diverse frazioni imprenditoriali, a causa della diversa capacità di adeguarsi alle mutate condizioni.

Questo è un altro motivo (oltre al timore che, alla fine, i lavoratori si sveglino e lottino per aumenti salariali e/o per l’indicizzazione delle retribuzioni) che sta spingendo le Banche Centrali ad alzare i tassi di interesse, nel tentativo, vedremo quanto risolutivo, di abbassare l’inflazione – l’obiettivo ufficiale perseguito è un tasso d’inflazione attorno al 2%.

Ritorneremo un’altra volta su questi temi. Per adesso, li accenniamo solo per sottolineare i limiti entro cui possono muoversi le Banche Centrali e le istituzioni del capitale. Questi limiti sono, in ultima analisi, dettati dalle leggi di funzionamento del sistema.

Il peso enorme che ha da tempo assunto il capitale speculativo, la tendenza smodata ad una accumulazione di denaro attraverso la speculazione su titoli, derivati (CDS, futures, “swap” vari, “arbitraggi” sul mercato dei cambi, ecc.), criptovalute, materie prime, ecc. senza passare dal processo produttivo, non significa che il modo di produzione capitalistico si sia emancipato dalla necessità di produrre profitti attraverso la produzione di merci. Lo sfruttamento del lavoro salariato, del lavoro vivo, rimane l’unica fonte di reale valorizzazione del capitale (sul presupposto fondamentale che la riproduzione della forza lavoro continui ad essere gratuita, o quasi), e l’esplosione periodica delle crisi finanziarie, il loro modo di presentarsi e le stesse modalità d’intervento per fronteggiarle, stanno lì a certificarlo.

Le Banche Centrali possono “creare moneta” in quantità potenzialmente illimitata, ma non possono creare “valore” a piacimento: per creare nuovo valore, nuovo plusvalore, è necessario “sporcarsi le mani” con la produzione materiale, detto altrimenti: spezzare la schiena, consumare i muscoli, i nervi, le menti di centinaia di milioni di proletarie e proletari per consentire al capitale anticipato di ingrandirsi.

Quello che a certi ingenui (o finti ingenui) appare come il “potere soprannaturale” delle Banche Centrali di stampare moneta a volontà si scontra con i limiti reali del processo di accumulazione. L’esercizio di questo potere non è in grado di “risolvere le crisi” (che altrimenti non ci sarebbero mai), ma solo di tamponarne alcuni effetti, e di trasferire i fattori di crisi su altri piani, preparando però il terreno per l’esplosione di crisi ancora più gravi. E’ un modus operandi che produce conseguenze diverse a seconda della struttura specifica del sistema: l’ipertrofia del capitale speculativo e la sua crescente bulimia vanno infatti considerate con attenzione, perché hanno un peso determinante sullo stesso processo di accumulazione – provocando quella estrema intensificazione e precarizzazione del lavoro che è l’amarissima esperienza quotidiana dei salariati in ogni angolo del mondo. Nei rapporti inter-capitalistici, invece, la risultante finale di questo sempre più caotico groviglio di forze è uno scontro sempre più feroce fra le diverse fazioni della classe dominante. Questo scontro, a sua volta, non si limita al “mercato interno”, ma investe la stessa collocazione nel mercato mondiale e nel sistema internazionale degli Stati, cioè negli equilibri di potenza tra gli stati capitalistici. Comunque finisca questa nuova tempesta finanziaria, con ulteriori sconquassi a catena oppure con un provvisorio arginamento degli effetti catastrofici immediati delle insolvenze bancarie, il cammino ad una nuova brutale aggressione alla classe lavoratrice e a nuovi, violentissimi scontri inter-capitalistici è segnato.

La capacità dei proletari, innanzitutto dei loro settori d’avanguardia e delle minoranze rivoluzionarie, di inquadrare a questo livello la stessa lotta di resistenza immediata è cruciale per affrontare la nuova fase storica che la guerra in Ucraina ha inaugurato, quella di una lotta senza esclusione di colpi fra tutte le grandi potenze per definire una nuova spartizione delle risorse naturali del mondo e del lavoro mondiale di produzione delle merci e riproduzione della forza-lavoro.

Per questo è assolutamente vitale opporsi all’attacco che quotidianamente i proletari subiscono con le politiche “anti-inflazione” e da “economia di guerra”, cogliendo la reale posta in gioco. Come non esistono schieramenti imperialisti “migliori di altri”, così, anche nella lotta immediata, non esistono politiche borghesi migliori di altre. I proletari non hanno amici in questo sistema. Il loro futuro è legato alla capacità di unirsi e di dare battaglia fino in fondo a questo sistema sociale.

L’opposizione alla guerra imperialista – quella in corso e una futura terza guerra mondiale – e la resistenza di classe che i proletari nel loro insieme saranno sempre più costretti a mettere in campo per non essere schiacciati dall’attacco delle classi dominanti (vedi qui in Europa Francia e Grecia, al momento), sono i due fattori da fondere in una strategia internazionalista del proletariato delle metropoli e delle masse diseredate e oppresse delle periferie del sistema capace di fronteggiare vittoriosamente la catastrofe capitalistica in atto, per affermare, nell’inevitabile scontro frontale con la classe capitalistica, una nuova società superando definitivamente un sistema sociale sempre più esiziale per le sorti dell’umanità intera. (Red.)

* Qui la nota di A. Pagliarone

Purtroppo l’articolo non fa riferimento al debito faraonico sia dello stato che delle corporates da tempo impegnate a riversare i loro profitti verso la finanza speculativa, titoli, obbligazioni, derivati e quant’altro, per poter tirare avanti sia nel pagamento dei servizi del debito sia per garantire utili agli azionisti, ai manager, e naturalmente un salario schifoso per i loro lavoratori. Il mito delle corporate high tech, come in passato altri miti, è crollato miseramente visto che si comportano come tutte le altre imprese, e le start up su cui puntano per rivalutare il loro patrimonio si sono rivelate un bluff assoluto. Inoltre Hudson non fa riferimento alla solita soluzione basata su centinaia di migliaia di licenziamenti e ulteriori tagli al salario ed al welfare. Siamo messi proprio male, piove sul bagnato come suggerisce un mio amico. Nel frattempo tutti gli osservatori, anche quelli che si credono più radicali, passano il tempo a seguire l’ondata “politica” mainstream per la pigrizia che li porta ad intervenire solo su questioni “facili”. Diceva il mio più caro amico [Paolo Giussani] che l’economia è una scienza triste, è vero; ma purtroppo per capire come vanno le cose, bisogna addentrarci nella tristezza dell’economia per evitare la tristezza delle idee. 

***

Ecco perché il sistema bancario sta andando in pezzi, di Michael Hudson

I crolli di Silvergate e Silicon Valley Bank sono come iceberg che si staccano da un ghiacciaio antartico. L’analogia finanziaria con il riscaldamento globale è l’aumento della temperatura dei tassi d’interesse, che giovedì e venerdì scorso hanno raggiunto il 4,60% per i titoli del Tesoro americano a due anni, nonostante i depositanti bancari continuassero a ricevere solo lo 0,2% sui loro depositi. Questo ha portato ad un costante ritiro di fondi dalle banche e ad un corrispondente calo dei saldi delle banche commerciali presso la Federal Reserve.

La maggior parte dei resoconti dei media si augura che le corse agli sportelli siano localizzate, come se non ci fosse un contesto o una causa di fondo. C’è un imbarazzo generale nello spiegare come la disgregazione delle banche, appena agli inizi, sia il risultato del modo in cui l’amministrazione Obama aveva salvato le banche nel 2008, con quindici anni di Quantitative Easing (QE) per rigonfiare i prezzi dei mutui bancari a pacchetto – e con essi i prezzi delle case, insieme a quelli delle azioni e delle obbligazioni.

I 9.000 miliardi di dollari di QE della Fed (non conteggiati nel deficit di bilancio) avevano alimentato un’inflazione dei prezzi degli asset che aveva fatto guadagnare trilioni di dollari ai detentori di attività finanziarie – l’1% al vertice, con un generoso effetto di ricaduta sugli altri membri del 10% appena sotto. Il costo della casa di proprietà era salito alle stelle, grazie alla capitalizzazione dei mutui a tassi d’interesse in calo in immobili ad alta leva finanziaria. L’economia statunitense aveva sperimentato il più grande boom del mercato obbligazionario della storia, mentre i tassi di interesse scendevano sotto l’1%. L’economia si era polarizzata tra la classe dei creditori con patrimonio netto positivo e il resto dell’economia e, se volessimo fare un’analogia con l’inquinamento ambientale e il riscaldamento globale, questo è inquinamento da debito.

Ma, nel servire le banche e la classe proprietaria finanziaria, la Fed si è messa in un vicolo cieco: Cosa sarebbe successo se e quando i tassi di interesse fossero finalmente aumentati? In Killing the Host ho scritto ciò che sembra abbastanza ovvio. L’aumento dei tassi d’interesse fa crollare i prezzi delle obbligazioni già emesse, insieme ai prezzi degli immobili e delle azioni. Questo è ciò che sta accadendo nell’ambito della lotta della Fed contro l'”inflazione”, il suo eufemismo per opporsi all’aumento dell’occupazione e dei livelli salariali. I prezzi delle obbligazioni stanno crollando, così come il valore capitalizzato dei mutui ipotecari e degli altri titoli in cui le banche tengono in bilancio le loro attività a garanzia dei depositi.

Il risultato rischia di far scendere gli attivi delle banche al di sotto dei loro depositi, azzerando il loro valore netto – il loro patrimonio netto. Questo è ciò che si era paventato nel 2008. È quello che si era verificato nel modo più estremo negli anni ’80 con le S&L (Savings and Loan Association) e le casse di risparmio, cosa che aveva portato alla loro scomparsa. Questi “intermediari finanziari” non creavano credito come le banche commerciali, ma prestavano i depositi sotto forma di mutui a lungo termine a tasso fisso, spesso a 30 anni. Tuttavia, sulla scia dell’impennata dei tassi d’interesse volkeriani [da Paul Volcker, presidente della Federal Reserve dal 1979 al 1987, fautore sotto Carter e sotto Reagan di una politica monetaria aggressivamente “anti-inflazione” – n. n.] che aveva inaugurato gli anni ’80, il livello generale dei tassi d’interesse era rimasto più alto dei tassi d’interesse che le S&L e le casse di risparmio ricevevano. I depositanti avevano iniziato a ritirare il loro denaro per ottenere rendimenti più elevati altrove, perché le S&L e le casse di risparmio non potevano pagare ai loro depositanti tassi più alti con le entrate derivanti dai loro mutui bloccati a tassi inferiori. Quindi, anche senza frodi in stile Keating, lo squilibrio tra le passività a breve termine e i tassi d’interesse a lungo termine aveva posto fine al loro giro d’affari.

Le S&L dovevano denaro ai depositanti a breve termine, ma erano bloccate in attività a lungo termine a prezzi in calo. Naturalmente, i mutui delle S&L erano molto più a lungo termine rispetto a quelli delle banche commerciali. Ma l’aumento dei tassi di interesse ha sugli asset bancari lo stesso effetto che ha su tutti gli asset finanziari. Così come il calo dei tassi d’interesse del QE mirava a sostenere le banche, oggi la sua inversione deve avere l’effetto opposto. E, se le banche hanno fatto operazioni in derivati sbagliate, sono nei guai.

Ogni banca ha il problema di mantenere la valutazione delle proprie attività superiore a quella dei propri depositi. Quando la Fed alza i tassi di interesse in modo così brusco da far crollare i prezzi delle obbligazioni, la struttura patrimoniale del sistema bancario si indebolisce. Questo è il vicolo cieco in cui la Fed ha spinto l’economia con il QE.

La Fed, ovviamente, riconosce questo problema intrinseco. È per questo che per così tanto tempo ha evitato di aumentare i tassi di interesse, fino a quando il 99% dei salariati non ha iniziato a beneficiare della ripresa dell’occupazione. Quando i salari hanno iniziato a riprendersi, la Fed non ha potuto fare a meno di combattere la solita guerra di classe contro il lavoro. Ma così facendo, la sua politica si è trasformata in una guerra contro il sistema bancario.

Silvergate è stata la prima ad andarsene, ma si tratta di un caso particolare. Aveva cercato di cavalcare l’onda delle criptovalute fungendo da banca per diverse valute. Dopo la scoperta dell’enorme frode di Sam Bankman-Fried c’era stata la corsa per liberarsi delle criptovalute. Gli investitori/giocatori avevano abbandonato la nave. I gestori di criptovalute avevano dovuto pagare attingendo ai depositi che avevano presso Silvergate. La società è fallita.

Il fallimento di Silvergate ha distrutto la grande illusione dei depositi in criptovalute. L’impressione popolare era che le criptovalute fornissero un’alternativa alle banche commerciali e alla “moneta fiat.” Ma in cosa potevano investire i fondi di criptovalute per sostenere gli acquisti di monete, se non in depositi bancari, titoli di Stato o azioni e obbligazioni private? Che cos’è la criptovaluta, in definitiva, se non un semplice fondo comune di investimento con la segretezza della proprietà per proteggere i riciclatori di denaro?

Anche la Silicon Valley Bank è, per molti versi, un caso particolare, data la sua specializzazione nei prestiti alle startup IT. Anche la New Republic Bank ha subito una corsa agli sportelli, e anch’essa è specializzata nella concessione di prestiti a ricchi depositanti nell’area di San Francisco e della California settentrionale. Ma la scorsa settimana si è parlato di una corsa agli sportelli e i mercati finanziari sono stati scossi dal calo dei prezzi delle obbligazioni, quando il presidente della Fed Jerome Powell ha annunciato che intendeva aumentare i tassi di interesse anche più di quanto avesse previsto in precedenza, in considerazione del fatto che l’aumento dell’occupazione avrebbe reso i salariati più arroganti nella loro richiesta di tenere almeno il passo con l’inflazione causata dalle sanzioni statunitensi contro l’energia e i prodotti alimentari russi e dalle azioni dei monopoli per aumentare i prezzi “per anticipare l’inflazione in arrivo.” I salari non hanno tenuto il passo con i conseguenti alti tassi di inflazione.

Sembra che la Silicon Valley Bank dovrà liquidare i suoi titoli in perdita. Probabilmente sarà rilevata da una banca più grande, ma l’intero sistema finanziario è sotto pressione. Venerdì la Reuters ha riferito che le riserve bancarie presso la Fed sono crollate. Non c’è da stupirsi, visto che le banche pagano circa lo 0,2% sui depositi, mentre i depositanti possono ritirare i loro soldi per acquistare titoli del Tesoro americano a due anni che rendono il 3,8 o quasi il 4%. È ovvio che gli investitori benestanti stiano scappando dalle banche.

Bisognerebbe chiedersi perché la Fed non si limita a salvare le banche nella situazione della Silicon Valley Bank. La risposta è che il calo dei prezzi delle attività finanziarie sembra la Nuova Normalità. Per le banche con patrimonio netto negativo, come si può risolvere il problema della solvibilità senza ridurre drasticamente i tassi di interesse per ripristinare la politica dei tassi zero (ZIRP) durata 15 anni?

Nella stanza c’è un elefante ancora più grande: i derivati. La volatilità è aumentata giovedì e venerdì scorsi. Le turbolenze hanno raggiunto dimensioni ben superiori a quelle che avevano caratterizzato il crollo di AIG (American International Group) e di altri speculatori nel 2008. Oggi, JP Morgan Chase e altre banche di New York hanno decine di trilioni di dollari in derivati – scommesse da casinò su come cambieranno i tassi di interesse, i prezzi delle obbligazioni, i prezzi delle azioni e altre misure.

Per ogni ipotesi vincente ce n’è una perdente. Quando si scommette su trilioni di dollari, qualche trader bancario è destinato a subire una perdita che può facilmente cancellare l’intero patrimonio netto di una banca.

Ora c’è una fuga verso il “contante,” verso un rifugio sicuro, qualcosa di ancora migliore del contante: i titoli del Tesoro americano. Nonostante i Repubblicani si rifiutino di alzare il tetto del debito, il Tesoro può sempre stampare il denaro per pagare gli obbligazionisti. Sembra che il Tesoro diventerà il nuovo deposito di scelta per coloro che hanno le risorse finanziarie necessarie. I depositi bancari diminuiranno. E con essi anche le riserve bancarie presso la Fed.

Finora il mercato azionario ha resistito al crollo dei prezzi delle obbligazioni. La mia ipotesi è che ora assisteremo all’apoteosi del grande boom del capitale fittizio del 2008-2015. Quindi, i nodi stanno venendo al pettine – e il “grosso nodo” è, forse, l’enorme sovraccarico di derivati alimentato dall’allentamento della regolamentazione finanziaria e dell’analisi del rischio dopo il 2008.

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