Dalla Francia e dalla Grecia ci arrivano in questi giorni segnali chiari e forti di risveglio della grande massa dei lavoratori, scesi in lotta – e che lotta! – contro i loro governi, le spese militari, i tagli alla spesa sociale.
In Italia segnali importanti di risveglio dei lavoratori sono venuti, negli ultimi anni e negli ultimi tempi, dalle lotte dei facchini e dei driver immigrati organizzati con il SI Cobas contro le multinazionali della logistica, e dai disoccupati organizzati di Napoli del Movimento 7 novembre. Queste lotte hanno conquistato grandi miglioramenti dei salari e degli orari di lavoro nei magazzini, e sbocchi di formazione e lavoro a Napoli. E hanno avuto il merito di porre questioni generali come il no alla guerra e all’economia di guerra, il no alla precarietà e al carovita, e denunciare le politiche razziste di guerra agli immigrati. Da queste lotte è partito anche un caldo appello agli studenti, ai giovani ambientalisti, al sindacalismo di base, alla massa delle sfruttate e degli sfruttati per dare vita a un fronte di classe unitario contro il padronato, il governo Meloni, le decisioni di UE e Nato.
Da oltre due mesi (qui in Italia non se n’è accorto quasi nessuno) manifestazioni con centinaia di migliaia di dimostranti, soprattutto giovani proletari, scuotono la capitale Khartoum e le altre maggiori città del Sudan, al canto di “il popolo è più forte, nessuna ritirata” e “nessun negoziato, nessuna condivisione, nessuna legittimazione” (dell’esercito). Protestano contro il golpe che il 25 ottobre scorso ha posto fine alla coabitazione militari-civili, esautorato e messo agli arresti domiciliari il primo ministro Hamdok (civile). Ma protestano anche contro l’accordo che il 21 novembre lo ha riportato al governo nel tentativo, finora fallito, di indurre alla calma le piazze. Il golpe, ispirato dalle satrapie del Golfo sempre più strettamente coordinate con lo stato di Israele attraverso il “Patto d’Abramo”, doveva installare a Khartoum un governo simile a quello egiziano, totalmente centrato sull’esercito e sulla polizia. L’obiettivo è stato mancato per la forza delle dimostrazioni popolari e degli scioperi, ma Hamdok è ritornato in sella con un ambiguo discorso contro gli “opposti estremismi”, che le piazze hanno considerato sospetto, e da respingere. 45 morti e centinaia di feriti sono il prezzo finora pagato da questa mobilitazione di masse oppresse, che stanno imparando a loro spese quanto è esiziale per una rivoluzione, anche per una rivoluzione democratica com’è quella in corso in Sudan da anni, fermarsi a metà strada, o ancor prima.
La vicenda sudanese è solo un tassello di insieme di accadimenti di enorme portata in corso nel mondo arabo e medio-orientale a partire dalle sollevazioni tunisina ed egiziana del 2011, che solo della gente con l’anima bianca e un profondo disprezzo per tutto ciò che accade in questo mondo, può derubricare a rivoluzioni “semi-colorate”. Al contrario, per chi davvero voglia intendere, questo dossier che abbiamo ricevuto da un militante e ricercatore algerino e volentieri mettiamo in rete, offre una molteplicità di elementi di analisi per comprendere le periodiche scosse telluriche che stanno avvenendo nel Nord Africa arabo e in tutta la regione fino al Libano, allo Yemen, all’Iraq e alla Palestina. Il suo titolo è indicativo: “Guardando indietro, guardando avanti. Ereditare una rivoluzione“.
Nel n. 1 del Cuneo rosso noi preferimmo parlare di Intifadah (sollevazione, insorgenza) come apertura di un processo rivoluzionario, anziché di al-thaura (rivoluzione), e vedemmo da subito profilarsi la contrapposizione antagonistica tra due prospettive: o lo sviluppo del processo rivoluzionario, o il ritorno in forze della controrivoluzione. E’ accaduta la seconda cosa, con il concorso attivo di tutte le potenze mondiali e di area unite con le borghesie arabe al completo nel soffocare nel sangue (o, in subordine, deviare nei vicoli ciechi delle divisioni settarie) le gigantesche sollevazioni popolari e proletarie. Ma dal 2018 – proprio in Sudan, successivamente in Algeria, in Libano, in Iraq e quasi ovunque – il processo rivoluzionario è tornato a riprendere il suo corso, avendo appreso, almeno in parte, la lezione delle sconfitte subite.
Questo dossier ha un’impostazione democratico-rivoluzionaria per molti versi debitrice alle posizioni di Franz Fanon, che evidentemente non coincide con la nostra, ma chi lo studierà a fondo troverà in esso una massa di elementi di analisi utili a comprendere cosa realmente si è mosso e cosa si sta muovendo “laggiù” in questa “seconda ondata” di indomite sollevazioni, che debbono fare i conti con la debolezza dell’organizzazione politica e sindacale del proletariato, con il pestifero settarismo religioso, con la futilità delle prospettive di riforma giuridico-istituzionale dei regimi autoritari, e – su tutto – con i tentacoli soffocanti delle piovre imperialiste occidentali e non occidentali. E potrà comprendere quanto le “loro” battaglie debbano essere sentite e diventare nostre nella misura in cui, in modo più o meno consapevole, hanno per loro bersaglio destinato non soltanto i propri regimi, ma, inseparabilmente, le potenze che ad essi sovraintendono sul piano economico-finanziario, politico e repressivo. Il caos nel quale da un paio di decenni sta sprofondando il capitalismo globale ha nel mondo arabo e in Medio oriente un terreno di scontro fondamentale. Estraniarsene è disertare!
Ribadiamo qui la posizione che esprimemmo un decennio fa:
Viva l’Intifada araba! Che essa vada avanti fino alla vittoria completa contro le borghesie arabe, nessuna delle quali merita più (se mai l’hanno meritato) il titolo di progressista, e contro i signori della reazione mondiale, gli stati e i governi dell’Occidente!
Solidarietà incondizionata agli sfruttati e agli oppressi arabi!
Viva la mondializzazione delle lotte e dell’organizzazione di classe dei lavoratori!
Mentre ai confini tra Bielorussia e Polonia va in scena l’immondo spettacolo dei regimi borghesi europei dell’Est e dell’Ovest uniti nella guerra agli emigranti afghani, siriani, iracheni…; mentre in Francia, sotto la benedizione del potente miliardario Bolloré, sale la candidatura alla presidenza della repubblica di Eric Zemmour, che accusa gli immigrati musulmani di voler “ricolonizzare la Francia” e di essere i principali vettori del “Grand Remplacement” (la grande sostituzione etnica) dei francesi veri con la “melma d’importazione”, i cui figli sono “ladri e assassini”; mentre in Gran Bretagna l’uccisione del deputato David Amess e l’attentato di Liverpool sono gli inneschi di nuove campagne di stampa anti-musulmane; e mentre in Italia la “sinistra antagonista” (ma esiste ancora qualcosa del genere?) pressoché all’unanimità resta in un silenzio di tomba, succube e complice di questi orrori neocoloniali fisici e mediatici; pensiamo bene di pubblicare la seconda puntata del nostro testo contro l’islamofobìa come arma di guerra, dedicato appunto al falso mito dell’Islam di oggi, come conquistatore e colonizzatore dell’Europa e dell’Occidente. Andare controcorrente non ci fa problema, tanto più quanto più siamo certi delle nostre ragioni.
La prima puntata, insieme con l’introduzione generale a questo scritto, è rintracciabile qui.
A questo link potete invece leggere e scaricare la versione in arabo dell’articolo.
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Il mito dell’Islam colonizzatore-conquistatore (II)
La rappresentazione caricaturale del mondo “islamico” quale un monolite immobile, totalmente immerso nel sacro, tutto-religioso, è solo un aspetto, lo sfondo per così dire, dell’islamofobìa che da due decenni infuria in Europa perfino più che negli Stati Uniti. Il secondo stereotipo di importanza forse anche maggiore è quello che vuole l’Islam (maiuscolo, in quanto il riferimento qui non è tanto ad una religione, quanto a una civiltà che in qualche modo accomuna un insieme di paesi) proteso per sua natura a colonizzarci per imporci le sue norme di comportamento reazionarie, e pronto a farlo con ogni mezzo, terrorismo incluso.
Ancora una volta, a cantarle chiare è la Fallaci. Rivolgendosi alle persone che davanti alla jihad islamista esitano a comprendere quello che è a suo giudizio il vero contenuto dell’islamismo jihadista, le sferza nel seguente modo:
«sveglia, gente, sveglia! Intimiditi come siete dalla paura di andare contro corrente oppure d’apparire razzisti, (parola oltretutto impropria perché il discorso non è su una razza, è su una religione), non capite o non volete capire che qui è in atto una Crociata alla Rovescia. Abituati come siete al doppio gioco, accecati come siete dalla miopia, non capite o non volete capire che qui è in atto una guerra di religione. Voluta e dichiarata da una frangia di quella religione forse. (Forse?) Una guerra che essi chiamano Jihad: Guerra Santa. Una guerra che non mira alla conquista del nostro territorio forse, (forse?), ma che certamente mira alla conquista delle nostre anime. Alla scomparsa della nostra libertà e delle nostra civiltà. All’annientamento del nostro modo di vivere e di morire, del nostro modo di pregare e di non pregare, del nostro modo di mangiare e di bere e vestirci e divertirci e informarci… Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà. E distruggerà il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a cambiare, a migliorare, a rendere un po’ più intelligente, cioè meno bigotto o addirittura non bigotto. Distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la nostra scienza, la nostra morale, i nostri valori, i nostri piaceri… Cristo! Non vi rendete conto che gli Usama Bin Laden si ritengono autorizzati a uccidere voi e i vostri bambini perché bevete il vino o la birra, perché andate al teatro e al cinema, perché ascoltate la musica e cantate le canzonette, perché ballate nelle discoteche o a casa vostra, perché guardate la televisione, perché portate la minigonna o i calzoncini corti, perché al mare o in piscina state ignudi o quasi ignudi, perché scopate quando vi pare e dove vi pare e con chi vi pare? Non v’importa neanche di questo, scemi?»1.
Questa catena di mistificazioni fa perno sulla diffusissima tesi: l’islam ed in particolare l’islamismo politico, jihadista e non, hanno dichiarato all’Occidente una guerra offensiva di conquista. Questa guerra, condotta anche all’interno dell’Occidente e dell’Europa dagli immigrati “islamici”, ha di mira, forse, l’occupazione dei nostri territori, ma di sicuro l’annientamento del “nostro modo di vivere e di morire”, di “mangiare e bere e vestirci e divertirci e informarci” e quant’altro si possa chiamare in causa per impaurire e pungolare il pubblico europeo ed occidentale, soprattutto le persone comuni, e farle sentire minacciate nei loro affetti più cari (i bambini che rischiano di essere uccisi perche gli islamisti vogliono imporci diete alimentari diverse dalle nostre) e nelle loro soddisfazioni abitudinarie più elementari o misere (il calcio o il reality show).
Proviamo a mettere un po’ di ordine logico in questo marasma.