L’Ucraina: Eldorado dell’industria della morte – Giulia Luzzi

Riprendiamo dal sito Combat-COC questo ben documentato articolo sulle crescenti sinergie tedesco-ucraine nell’industria degli armamenti, giustamente ridenominata dai compagni che scrivono: industria della morte. C’è di sicuro anche questo fattore dietro il progressivo allentamento del ruolo di freno agli “aiuti” bellici a Kiev svolto in un primo momento dal cancelliere tedesco Scholz rispetto all’assatanata ministra degli esteri Baerbock: gli “aiuti” debbono essere in primi luogo incentivi, profitti – meglio ancora se super-profitti – assicurati, al capitale germanico. Una regola, del resto, universale.

Di quale atroce auto-inganno cadono vittime i lavoratori e le lavoratrici ucraine se si illudono che le sinergie tedesco-ucraine nell’industria bellica, o le gigantesche forniture di armi da parte degli Stati Uniti e dei paesi europei, serviranno alla difesa della loro vita e della loro libertà. (Red.)

Abbiamo sostenuto che la guerra in Ucraina è una guerra imperialista per lo sfruttamento della classe lavoratrice e delle risorse naturali ucraine.

La rapina era già in corso da anni, con i capitali occidentali ad occupare spazi ceduti dai gruppi capitalistici russi – e ucraini – in difficoltà.

La Germania aveva tenuto una posizione attendista, non volendo guastare i rapporti con la Russia, principale fornitrice di energia e acquirente di macchinari, oltre che terreno di investimento.

Con la guerra Russia/NATO in Ucraina la Germania è stata costretta (dagli USA) a tagliare parte dei rapporti economici con la Russia, ma in cambio pretende la fetta più grande della torta ucraina, e non sta a guardare.

Il settore che più tira di questi tempi è quello degli armamenti: domanda e profitti sono assicurati. In Ucraina armi e munizioni sono certamente gli articoli più richiesti e … consumati (insieme alle casse da morto).

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“La guerra in Ucraina: scontro tra imperi sulla pelle dei popoli”. Video della relazione di Pietro Basso al Kinesis di Tradate – 20 aprile

Il 20 aprile, al Centro sociale Kinesis di Tradate, Pietro Basso ha presentato il libro scritto dai compagni e dalle compagne della TIR, “La guerra in Ucraina e l’internazionalismo proletario”, giunto alla seconda ristampa.

Gli organizzatori di questo incontro partecipato e molto vivace hanno messo in rete la relazione iniziale, stringata, concentrata sull’essenziale, che qui riprendiamo. (Red.)

Ecco perché il sistema bancario sta andando in pezzi, di Michael Hudson (con una nota della redazione)

Questo perché non doveva esserci contagio, essendo il sistema bancario europeo al sicuro. Al contrario, in pochi giorni la crisi bancaria avviata dal crollo della californiana SVB ha fatto la prima vittima illustre, molto illustre, in Europa: Credit Suisse è arrivata ad un passo dal fallimento, evitato solo con un massiccio intervento della Banca Centrale svizzera, dopo che la Saudi National Bank ha rifiutato di sostenere una nuova ricapitalizzazione dell’istituto elvetico. Un altro segnale che la finanza saudita, finora legata molto strettamente al “campo occidentale” sta volgendo il suo sguardo anche in direzione della coalizione imperialista rivale, quella che ha nella Cina e, subordinatamente, nella Russia il proprio centro di gravità. Ed insieme un altro segnale della decrescente capacità degli Stati Uniti di esercitare la propria totalizzante egemonia su quello che è stato per decenni il suo campo: la loro soverchiante potenza militare e la perdurante forza del loro apparato finanziario non sono più in grado di assicurarlo.

L’articolo di Hudson (ce l’ha segnalato A. Pagliarone accompagnandolo con una nota critica che riportiamo qui sotto*) che presentiamo di seguito, mette l’accento su alcuni aspetti dell’attuale crisi bancaria negli Stati Uniti spiegando perché essa non appare per nulla conclusa, e accenna nello stesso tempo ad alcune rilevanti questioni sociali, come la dinamica dei salari americani e il loro legame con le misure della Fed. Uno scenario che ha risvolti simili in Europa e incide sulla politica monetaria della BCE.

La BCE ha rialzato il tasso d’interesse di 50 punti-base (+0,50%), smentendo così le previsioni di un rialzo dimezzato dello 0,25%.

Si conferma invece che “l’inflazione” è al centro delle decisioni della BCE e della FED. Quest’ultima, in particolare, ha detto che il mercato del lavoro negli USA è ancora “troppo ristretto”, cioè che sono leggermente cresciuti i margini dei lavoratori per contrattare salari più alti e questo, per la “cupola” capitalistica, è inaccettabile. Lo spettro dell’inflazione che BCE e FED stanno combattendo è questo: il pericolo che i salari “inseguano” la crescita dei prezzi.

Di qua e di là dell’Atlantico, l’incremento dei salari e “la scala mobile” (cioè quel meccanismo che permette alle retribuzioni di crescere quando vi è stato un aumento dei prezzi) sono al centro delle preoccupazioni e dell’attacco delle classi dominanti. L’unica “scala mobile” che i capitalisti accettano, anzi venerano come un dogma, è quella dei prezzi di vendita delle proprie merci, cioè il loro sacro diritto di trasferire sui prezzi finali gli aumenti dei costi di materie prime e semilavorati che entrano nelle loro produzioni. Per loro non si può nemmeno concepire la riduzione dei margini di profitto, mentre sarebbe del tutto fisiologico (e in linea con la teoria economica borghese, la quale mette in guardia dal fatto che si possa instaurare una “spirale prezzi-salari”) che i lavoratori debbano sopportare la riduzione del potere d’acquisto dei propri salari. Scala mobile dei profitti-svalutazione dei salari: ecco il comandamento a cui obbediscono i capitalisti di tutto il mondo. E che intendono imporre ai proletari con le politiche “anti-inflazione”!

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Francia: una lotta imponente, davanti a un bivio: radicalizzarsi, o essere sconfitta

I lavoratori francesi stanno dando prova di volersi battere sul serio contro la contro-riforma delle pensioni voluta a tutti i costi dall’asse Macron-padronato, e così facendo stanno dando una lezione a tutti i lavoratori europei, quelli italiani in particolare, su come condurre una lotta vera.

Il 7 marzo è stata la SESTA giornata di lotta contro una legge che:

  • aumenta l’età pensionabile da 62 a 64 anni;
  • riduce il rapporto tra pensione e ultimo salario dal 74% al 55%
  • aumenta il divario tra le pensioni delle donne e degli uomini dal 12% al 36%.

E alla sesta giornata di lotta in due mesi, indetta da 8 sindacati riuniti nell’Intersyndicale, il 7 marzo i lavoratori francesi non hanno mostrato segni di stanchezza. Anzi sono scesi ancora più numerosi in piazza in circa 300 città: 1milione 280 mila secondo la polizia, 3,5 milioni secondo la CGT. Oltre a Parigi (81 mila partecipanti secondo la polizia, 700 mila secondo la CGT), sono scese in strada in decine di migliaia in numerose altre città (Tolosa, Bordeaux, Marsiglia, Nantes, Limoges, Tarbes, Narbonnes tra le altre) in manifestazioni partecipate e combattive che hanno coinvolto anche settori studenteschi, e con slogan di sfida al governo che sta invece cercando di fare approvare la riforma in fretta e furia in Parlamento entro il 16 marzo.

Settori consistenti delle mobilitazioni hanno lanciato la parola d’ordine “fermare la Francia”, per costringere con la lotta il governo a ritirare la sua riforma. In diversi settori strategici, le ferrovie, il trasporto pubblico locale, la nettezza urbana, il settore petrolchimico, la produzione di energia elettrica e i rifornimenti di carburanti e del gas proveniente dai rigassificatori, i lavoratori hanno bloccato tutto. E gli scioperi proseguono nella modalità “reconductible”, vengono cioè prorogati di giorno in giorno dalle assemblee dei lavoratori senza bisogno di nuovi preavvisi. La grande maggioranza dei treni regionali, interregionali, intercity e ad alta velocità, gli autobus della zona parigina sono rimasti fermi, la disponibilità di energia elettrica (dalle centrali nucleari) è stata ridotta del 15%, le pompe di benzina non ricevono più carburanti dai depositi di Total e ogni giorno che passa un numero crescente resta a secco… Nonostante tutti questi disagi, la maggioranza della popolazione è solidale con scioperi e manifestazioni. Ed è da notare che anche l’industria privata (Stellantis, Continental, Arkema, etc.) è stata coinvolta dall’ondata di scioperi.

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Per un femminismo rivoluzionario, di Paola Tonello

Per l’8 marzo di due anni fa Il Cuneo rosso pubblicò un opuscolo, La posta in gioco. Riflessioni e proposte per un femminismo rivoluzionario, a cura di Paola Tonello, che faceva in modo sintetico, ma nettissimo, la critica del “femminismo” neo-liberista e imperialista in genere, senza nulla concedere – perché nulla va concesso – alla “tendenza oggi diffusa nel movimento delle donne, influenzata dalle filosofie post-moderne, che mette l’accento sulla condizione identitaria di ciascuna donna, frantumando la possibilità dell’azione collettiva in una pletora di microidentità del tutto funzionale ai rapporti di potere che si illude di scalzare”. Una posizione senza dubbio minoritaria, ma ferma nel sottolineare la centralità, per la loro liberazione, della lotta collettiva delle donne sfruttate ed oppresse, e del collegamento di questa lotta con “la lotta globale al sistema capitalistico”.

Ne ripubblichiamo qui la premessa e l’indice. Chi è interessato, può richiedere l’opuscolo (pp. 120, 5 euro, scrivendo a com.internazionalista@gmail.com)

Premessa

In due secoli di esperienze di lotta e di ricerca il movimento femminista ha affrontato da punti di vista diversi il problema della emancipazione e della liberazione delle donne, in una dialettica costante con l’esperienza di lotta del movimento operaio, delle lotte anticoloniali e di tutte le classi oppresse.

Una dialettica caratterizzata quasi sempre da parte del movimento operaio dalla indifferenza e ostilità nei confronti delle rivendicazioni femminili, dalla loro riduzione economicistica, dalla teoria della contraddizione principale/secondaria, dalla negazione di fatto del patriarcalismo e del suo ruolo nel mantenimento dell’ordine sociale borghese. D’altra parte, la trasversalità dell’oppressione delle donne ha offuscato, nelle varie espressioni del movimento femminista, la necessità di un inquadramento della condizione femminile all’interno di un sistema generale di oppressione e sfruttamento e la necessità di una autonoma convergenza con le lotte sociali delle classi oppresse e sfruttate.

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