Un sonoro ceffone, o un cazzotto in pieno volto? Chi sa, forse più probabile la seconda cosa. In ogni caso l’intesa tra Iran e Arabia saudita conclusa negli scorsi giorni a Pechino è un colpo dato sia agli Stati Uniti che ad Israele, che puntavano e puntano entrambi a isolare l’Iran e, se possibile, attraverso l’isolamento e le sanzioni, farlo avvitare e sprofondare nelle sue esplosive contraddizioni sociali interne riemerse in superficie di recente dalle fabbriche alle piazze, contraddizioni che il regime borghese “islamico” cerca di tenere a bada con il pugno di ferro.
Le reazioni isteriche della stampa italiana ci possono dare un’idea di ciò che realmente si è provato a Washington alla vista della foto che sopra riportiamo nella quale si stringono le mani il segretario del Consiglio supremo di sicurezza iraniano Ali Shamkhani, il consigliere per la sicurezza nazionale saudita Musaid Al Aiban e il capo della diplomazia cinese Wang Yi. Limes ha postato il seguente commento dal livore trattenuto: “Bollettino imperiale. La Repubblica popolare si propone come fornitore di sicurezza su scala globale come alternativa agli Usa. (…) La normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Iran e Arabia saudita rappresenta un significativo successo per i piani di proiezione verso Ovest della Repubblica popolare cinese”.
Chi, invece, non è riuscita a trattenere il proprio livore è la piddina Marta Dassù che su Repubblica del 16 marzo parla di “un protagonismo diplomatico senza molti precedenti nella storia della Repubblica popolare cinese”, illustrando le ragioni per cui anche la Cina (e non solo i suoi prediletti sponsor di Wall Street e del Pentagono) sta guadagnando punti dalla guerra in Ucraina e con l’accordo Iran-Arabia saudita, ruba la scena a tutti i paesi occidentali che ancora si illudono di poter dettare le proprie regole al mondo intero. Il momento del principio denghista del nuotare sott’acqua, “prendere tempo mantenendo un basso profilo”, è passato da quel dì, essendo ora la Cina divenuta una potenza economica capitalistica di primo livello (avvertite quelli che la credono ancora una semi-colonia “socialista”…). E si vede, ovviamente, anche in politica estera. Per cui l’imperativo categorico è ora, a Roma come a Washington, fare di tutto per ostacolarne l’ulteriore ascesa. Il che, per l’Italia e il governo Meloni, equivale a dire non rinnovare l’accordo del 2019 sulla Belt and Road Initiative firmato dal primo governo Conte. “Un vero errore politico che non sarà semplice gestire”, commenta la pentagonista Dassù. Dev’essere abrogato, punto – tuona la voce ufficiale in lingua italiana del Pentagono e di Tel Aviv, al secolo il direttore di Repubblica Molinari.
C’è chi, invece, va in estasi per l’intesa del 10 marzo a Pechino: sono i multilateralisti e i kampisti nostrani, pronti a scendere in armi, se necessario, contro gli operai e le donne manifestanti in Iran, a tutela del baluardo “anti-imperialista” (???) con centro a Teheran e appendici a Damasco e Beirut – non è necessario, signore e signori, continuate tranquille/i nei vostri affari, ci sanno pensare a dovere i vostri beneamati leader. Per alcuni tra costoro il multilateralismo – oltre che aprire spazi all’Italia, quanto gli sta a cuore la cosa! – aprono spazi alla pace, ad un mondo più equilibrato. Sì, quello che ha inaugurato l’era multipolare con la guerra in Ucraina, i 100 miliardi di Bonn per la corsa agli armamenti, le provocazioni crescenti degli Stati Uniti, i 200 miliardi di dollari di incremento delle spese militari giapponesi, i 330 miliardi di dollari per una flotta di sottomarini a propulsione nucleare stanziati dal governo australiano e – per quel che riguarda Roma – il raddoppio delle spese militari e la crescita di uno strisciante militarismo in tutti gli angoli della vita sociale.
Anche a noi internazionalisti piace ogni colpo dato allo ex-strapotere statunitense, alla NATO e al “nemico in casa nostra”, il governo, il capitalismo, lo stato italiani, ma solo perché – nella destabilizzazione dell’ordine mondiale a stelle e strisce – amplia gli spazi per la lotta di classe degli sfruttati e degli oppressi, per il ritorno in campo della prospettiva della rivoluzione sociale anti-capitalista. Non ci facciamo però la minima illusione sul multipolarismo iper-capitalistico in sé. Prendete l’accordo Iran-Arabia saudita. Un doppio colpo a Stati Uniti e Israele, ok. Ma, data la natura di classe dei contraenti, credete forse che aiuterà la lotta di liberazione dei palestinesi contro lo stato di Israele e i suoi protettori? Se è così, vi sbagliate di grosso! La riappacificazione dei vertici iraniani e sauditi, se durerà, sarà a scapito proprio della loro lotta di liberazione degli oppressi palestinesi e della sua radicalizzazione in corso, portando semmai ad un riavvicinamento delle burocrazie dell’Anp e di Hamas – ma non è certo la stessa cosa. Anzi! Nel mondo d’oggi i proletari, gli sfruttati, gli oppressi, non hanno né governi né stati amici. Chi sostiene il contrario, è un impostore, di grosso, medio o minuscolo calibro, sempre e comunque un miserabile impostore.