Cina: proteste di pensionati, al canto dell’Internazionale…

Anche in Cina, una Cina che aumenta quest’anno del 7,2% le proprie spese militari, si comincia a presentare alla classe dominante il problema degli “eccessivi” costi del sistema pensionistico e delle assicurazioni per le persone anziane, in forte crescita in questo paese per effetto di un fortissimo aumento della durata media della vita (salita a 77,3 anni) – entro il 2035 ci saranno 400 milioni di cinesi over-60.

È accaduto così che, a partire dal 1° febbraio scorso, la municipalità di Wuhan e di altre grandi città hanno cominciato a tagliare di netto i trasferimenti di denaro ai pensionati. Ad esempio a Wuhan il sussidio mensile per spese mediche è crollato da 286 renmimbi a 83, cioè da circa 42 dollari a circa 12 dollari, ed anche il sussidio pubblico massimo per un funerale è stato tagliato di più del 50%. Questo ha generato malcontento, anche perché secondo i dimostranti le riduzioni sono state maggiori per i pensionati operai rispetto ai pensionati del pubblico impiego. Le riforme dovrebbero migliorare la condizione dei lavoratori, non peggiorarla, obietta uno di loro che preferisce farsi identificare con uno pseudonimo (zio Ou), “altrimenti è un furto”. Dal quale egli pensa di difendersi legalmente (come noto, il ricorso alla controversia legale è ampio in Cina).

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Da Pechino, un cazzotto in pieno volto a Washington

Un sonoro ceffone, o un cazzotto in pieno volto? Chi sa, forse più probabile la seconda cosa. In ogni caso l’intesa tra Iran e Arabia saudita conclusa negli scorsi giorni a Pechino è un colpo dato sia agli Stati Uniti che ad Israele, che puntavano e puntano entrambi a isolare l’Iran e, se possibile, attraverso l’isolamento e le sanzioni, farlo avvitare e sprofondare nelle sue esplosive contraddizioni sociali interne riemerse in superficie di recente dalle fabbriche alle piazze, contraddizioni che il regime borghese “islamico” cerca di tenere a bada con il pugno di ferro.

Le reazioni isteriche della stampa italiana ci possono dare un’idea di ciò che realmente si è provato a Washington alla vista della foto che sopra riportiamo nella quale si stringono le mani il segretario del Consiglio supremo di sicurezza iraniano Ali Shamkhani, il consigliere per la sicurezza nazionale saudita Musaid Al Aiban e il capo della diplomazia cinese Wang Yi. Limes ha postato il seguente commento dal livore trattenuto: “Bollettino imperiale. La Repubblica popolare si propone come fornitore di sicurezza su scala globale come alternativa agli Usa. (…) La normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Iran e Arabia saudita rappresenta un significativo successo per i piani di proiezione verso Ovest della Repubblica popolare cinese”.

Chi, invece, non è riuscita a trattenere il proprio livore è la piddina Marta Dassù che su Repubblica del 16 marzo parla di “un protagonismo diplomatico senza molti precedenti nella storia della Repubblica popolare cinese”, illustrando le ragioni per cui anche la Cina (e non solo i suoi prediletti sponsor di Wall Street e del Pentagono) sta guadagnando punti dalla guerra in Ucraina e con l’accordo Iran-Arabia saudita, ruba la scena a tutti i paesi occidentali che ancora si illudono di poter dettare le proprie regole al mondo intero. Il momento del principio denghista del nuotare sott’acqua, “prendere tempo mantenendo un basso profilo”, è passato da quel dì, essendo ora la Cina divenuta una potenza economica capitalistica di primo livello (avvertite quelli che la credono ancora una semi-colonia “socialista”…). E si vede, ovviamente, anche in politica estera. Per cui l’imperativo categorico è ora, a Roma come a Washington, fare di tutto per ostacolarne l’ulteriore ascesa. Il che, per l’Italia e il governo Meloni, equivale a dire non rinnovare l’accordo del 2019 sulla Belt and Road Initiative firmato dal primo governo Conte. “Un vero errore politico che non sarà semplice gestire”, commenta la pentagonista Dassù. Dev’essere abrogato, punto – tuona la voce ufficiale in lingua italiana del Pentagono e di Tel Aviv, al secolo il direttore di Repubblica Molinari.

C’è chi, invece, va in estasi per l’intesa del 10 marzo a Pechino: sono i multilateralisti e i kampisti nostrani, pronti a scendere in armi, se necessario, contro gli operai e le donne manifestanti in Iran, a tutela del baluardo “anti-imperialista” (???) con centro a Teheran e appendici a Damasco e Beirut – non è necessario, signore e signori, continuate tranquille/i nei vostri affari, ci sanno pensare a dovere i vostri beneamati leader. Per alcuni tra costoro il multilateralismo – oltre che aprire spazi all’Italia, quanto gli sta a cuore la cosa! – aprono spazi alla pace, ad un mondo più equilibrato. Sì, quello che ha inaugurato l’era multipolare con la guerra in Ucraina, i 100 miliardi di Bonn per la corsa agli armamenti, le provocazioni crescenti degli Stati Uniti, i 200 miliardi di dollari di incremento delle spese militari giapponesi, i 330 miliardi di dollari per una flotta di sottomarini a propulsione nucleare stanziati dal governo australiano e – per quel che riguarda Roma – il raddoppio delle spese militari e la crescita di uno strisciante militarismo in tutti gli angoli della vita sociale.

Anche a noi internazionalisti piace ogni colpo dato allo ex-strapotere statunitense, alla NATO e al “nemico in casa nostra”, il governo, il capitalismo, lo stato italiani, ma solo perché – nella destabilizzazione dell’ordine mondiale a stelle e strisce – amplia gli spazi per la lotta di classe degli sfruttati e degli oppressi, per il ritorno in campo della prospettiva della rivoluzione sociale anti-capitalista. Non ci facciamo però la minima illusione sul multipolarismo iper-capitalistico in sé. Prendete l’accordo Iran-Arabia saudita. Un doppio colpo a Stati Uniti e Israele, ok. Ma, data la natura di classe dei contraenti, credete forse che aiuterà la lotta di liberazione dei palestinesi contro lo stato di Israele e i suoi protettori? Se è così, vi sbagliate di grosso! La riappacificazione dei vertici iraniani e sauditi, se durerà, sarà a scapito proprio della loro lotta di liberazione degli oppressi palestinesi e della sua radicalizzazione in corso, portando semmai ad un riavvicinamento delle burocrazie dell’Anp e di Hamas – ma non è certo la stessa cosa. Anzi! Nel mondo d’oggi i proletari, gli sfruttati, gli oppressi, non hanno né governi né stati amici. Chi sostiene il contrario, è un impostore, di grosso, medio o minuscolo calibro, sempre e comunque un miserabile impostore.

Uno sguardo altro sulla Cina contemporanea e le sue contraddizioni di classe, di Sandro Moiso

Riprendiamo con piacere da Carmilla on line la recensione che Sandro Moiso ha fatto di un testo del collettivo Chuăng sulla “costruzione della Cina contemporanea” appena uscito in lingua italiana. Al momento dello scoppio della pandemia, siamo stati i primi a tradurre e postare un documento assai interessante dei compagni di Chuăng, poi ripreso da altri blog e siti.

Concordiamo sia con l’apprezzamento che S. Moiso fa del lavoro di questo collettivo (all’interno del quale si trovano anche richiami alla Sinistra comunista), sia con le osservazioni critiche alla pretesa di questi compagni di vedere nella fase maoista della rivoluzione nazional-popolare cinese un timbro “sviluppista socialista” totalmente distinto dall’esperienza vissuta in Russia con la “costruzione del socialismo in un solo paese”. Sono temi di fondo del passato più o meno lontano su cui sarà inevitabile ritornare, senza tuttavia restare prigionieri del passato. (Red.)

[Fonte: Carmilla On-line]

Chuăng, Il sorgo e l’acciaio. Il regime sviluppista socialista e la costruzione della Cina contemporanea, Porfido Edizioni, Torino 2022, pp. 200, euro 12,00

La prima cosa che salta all’occhio, fin dalla lettura delle prime pagine, nel testo prezioso appena pubblicato dalle Edizioni Porfido è che a differenza dell’Italietta, in cui la sinistra antagonista troppo spesso continua a portarsi appresso le incrostazioni del gramscismo e di un certo operaismo ancora influenzato da brandelli di maoismo, in altre e ben più significative aree del mondo, in questo caso Cina e Stati Uniti, il riferimento ai linguaggi e alle esperienze teoriche della Sinistra Internazionalista costituisce una solida base per l’analisi dei più importanti fenomeni sociali, politici ed economici e delle inevitabili contraddizioni di classe che hanno contraddistinto la Repubblica Popolare Cinese dalle sue origini fino a oggi.

Indagare sulle origini e le ragioni dell’attuale salda integrazione della Cina nella “comunità materiale del capitale” è il compito che si sono posti i membri del collettivo comunista internazionalista Chuaˇng, gruppo anonimo i cui membri si distribuiscono appunto fra la Cina e gli Stati Uniti. Il carattere Chuaˇng, da cui il collettivo prende il nome, in cinese è riassumibile nell’immagine di un cavallo che sfonda un cancello e riveste il significato simbolico di liberarsi, attaccare, caricare, sfondare, forzare l’entrata o l’uscita: agire con impeto.

Da alcuni anni le pubblicazioni sull’omonima rivista e la serie di articoli traduzioni e interviste ospitate sul blog chuangen.org, rappresentano una delle fonti di informazione e analisi più attente e pertinenti sulle dinamiche e le traiettorie delle trasformazioni sociali e del conflitto di classe nella Cina attuale. Il libro, appena tradotto in Italia ma già apparso nel 2016 sul primo numero della rivista, rappresenta la prima parte di un progetto in corso di pubblicazione sulla storia economica della Cina che, con taglio dichiaratamente “materialista”, vuole smarcarsi tanto da una letteratura “di sinistra” da anni sostanzialmente monopolizzata e caratterizzata dalle varie correnti ideologiche di origine “maoista” che, occorre qui ricordarlo, hanno spesso poco a che vedere con il marxismo inteso in senso stretto, quanto dallo specialismo di chiara marca accademica.
Come hanno sottolineato gli autori:

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Cina: disoccupazione giovanile, morti per superlavoro, rifiuto del superlavoro, di Giulia Luzzi

L’articolo che proponiamo alla lettura solleva un problema già notato in Urss negli anni ’60: la disoccupazione giovanile e la sua sezione di disoccupazione intellettuale. La questione meriterà ulteriori studi, ma questo testo già individua la distorsione legata al modo di concepire l’istruzione del tutto capitalistico e che finisce col presentare sul mercato del lavoro un’eccedenza di offerta di manodopera “intellettuale”. C’è inoltre una variabile culturale che troviamo anche nelle società occidentali e che vede nell’istruzione la possibilità di realizzare per sé migliori condizioni di vita. Non si tratta, quindi, di un fattore legato semplicemente al passaggio da un’economia contadina ad un’economia industriale (in Cina già largamente avvenuto), ma di una trasformazione che investe lavoro, cultura e mentalità di massa.

Appare sulla scena la necessità – imposta dalla sempre più accesa concorrenza internazionale – di ricorrere al plus valore assoluto, e quindi pluslavoro, tutti innegabili indicatori della struttura economica e sociale del modo di produzione capitalistico: altro che avanzata verso il socialismo! Mercato del lavoro, disoccupazione, e quindi esercito di riserva, plusvalore assoluto,
apertura agli investimenti stranieri, esodo dalle campagne alla città, riforma agraria completano il quadro di una
struttura da capitalismo maturo che dovrebbe smentire certe analisi che ancora si dilettano a vedere nella Cina di oggi una “transizione verso il socialismo tutt’ora non ancora conclusa” (!) … Scusa, hai detto socialismo? (Red.)

Cina: il gigante asiatico poggia i suoi piedi sulle morti per superlavoro – Disincanto e frustrazione delle giovani generazioni di proletari cinesi

Riguardo alla “questione cinese”, la propaganda delle grandi testate giornalistiche, dei think tank, talk show televisivi fino ai social media concentra in genere la propria attenzione sulle strategie di sviluppo economico dell’imperialismo cinese. La Cina presentata come il Grande Dragone, il Gigante Asiatico, etc., in ogni caso sostanzialmente intesa come un monoblocco sociale unitario, forte di oltre un miliardo e quattrocento milioni di abitanti, omogeneo e coeso riguardo alla minacciosa proiezione internazionale imperialistica che contende il primato alla superpotenza americana. Quando parlano di crepe nel tessuto sociale della Cina, denunciano per lo più la violazione dei diritti umani contro le minoranze linguistiche o “etniche” musulmane dello Xingjang, uiguri, kazaki, hui, kirghizi, uzbeki e tagiki. Denunce di violazioni reali, ma pelose, interessate, perché non tanto preoccupate dell’aspetto umanitario quanto tese a dimostrare la concorrenza sleale, la anti-democraticità del sistema politico di Pechino, in contrapposizione alla supposta lealtà e democraticità delle potenze occidentali. Rari i riferimenti alle classi che compongono anche la società capitalistica cinese e alle sue contraddizioni politico-sociali. (Stesso approccio d’altra parte anche per le società capitalistiche occidentali, usato sia dai partiti parlamentari della cosiddetta sinistra, che da quelli dichiaratamente nazionalisti della destra).

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Seul: un suicidio colposo di massa in ossequio alla barbarie della merce capitalistica – Noi non abbiamo patria

TOPSHOT – The bodies of victims, believed to have suffered from cardiac arrest, are covered with sheets in the popular nightlife district of Itaewon in Seoul on October 30, 2022. – Dozens of people suffered from cardiac arrest in the South Korean capital Seoul on October 29, after thousands of people crowded into narrow streets in the city’s Itaewon neighbourhood to celebrate Halloween, local officials said. (Photo by Jung Yeon-je / AFP)

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa nota di Noinonabbiamopatria sulla tragedia di Seul: questo è il circolo vizioso del capitalismo, occidentale e orientale, della schiavitù capitalistica, della mercificazione capitalistica di tutti gli ambiti della vita della natura e della società, da spezzare. (Red.)

La vittoria dell’uomo capitalistico nella sua guerra contro la natura, che rimette al suo servizio senza più paura verso le nefaste conseguenze delle attività produttive dell’uomo per l’accumulazione infinita del valore.

E’ un contrappasso crudele che la celebrazione della vittoria dell’uomo civile e razionale, che dà prova di essere ancora capace di sottomettere a sé madre natura all’infinito, coincida con l’uomo stesso morto ammazzato in una mattanza di corpi mercificati simile alle sorti che egli, l’uomo capitalistico, riserva ai polli dei suoi allevamenti intensivi.

Liberi dal virus, liberi dalle mascherine, liberi di respirare e di perire soffocati in un suicidio colposo di massa in ossequio alla barbarie della merce capitalistica.