Bangladesh: le radici coloniali e neo-coloniali dei disastri ecologici e delle emigrazioni, di Raushana

Bangladesh: le radici coloniali e neo-coloniali dei disastri ecologici e delle migrazioni

C’è un articolo comparso su Repubblica lo scorso 6 Aprile sul Bangladesh e sulla questione dei cosiddetti profughi ambientali, che spiega come questo paese, secondo il Global Climate Risk Index, sia “al settimo posto tra gli Stati più colpiti dal riscaldamento globale e il più densamente popolato” e come il cambiamento climatico costituisca “una prova estrema per un paese che affonda le sue radici nell’acqua, abbracciando il più grande delta del mondo, quello del Padma (il canale principale del Gange in Bangladesh) e con più della metà del suo territorio a meno di 12 m sul livello del mare”. Il cambiamento climatico fa sì che milioni di persone siano costrette a emigrare forzatamente dalle coste verso la capitale Dacca o altre grandi città del Delta del Gange, come Chittagong, dove vivono in condizioni di estrema povertà, costretti a subire continue discriminazioni. Come riporta l’articolo, “si stima che l’81% dei migranti della capitale bengalese sia sfollata a causa del cambiamento climatico”. Una situazione destinata a peggiorare, poiché “nei prossimi 40 anni si stima che i dislocati interni saranno dai 3 ai 10 milioni”, mentre “entro il 2030 il Paese assisterà inerme all’aumento del 15% della povertà”.1

Questo è solo l’ultimo dei tanti articoli che sulla stampa italiana e estera si sono occupati del Bangladesh e della questione dei profughi ambientali. Negli ultimi anni, infatti, si sono moltiplicate le denunce che vanno in questo senso, che mostrano come il cambiamento climatico costringa milioni di persone a emigrare forzatamente, che arrivano anche ad ammettere che il cambiamento climatico è generato dal riscaldamento globale e che questo, a sua volta, sia generato dell’uso di combustibili fossili, e così via… Si è diffusa una narrazione pubblica semplificata, ormai pienamente accettata e accettabile, tant’è che appunto la troviamo in un giornale come Repubblica… In realtà, si tratta di una narrazione che è stata confezionata e propagandata dalle grandi istituzioni internazionali del capitalismo, come la Banca Mondiale e il FMI, che stanno portando avanti progetti miliardari per “salvare” i paesi del Sud del mondo -o meglio gli investimenti capitalistici nei paesi del Sud del mondo- dagli effetti dei cambiamenti climatici.

Questa narrazione, però, tiene nascosta una serie di elementi che, invece, sono di importanza fondamentale per capire quello che veramente sta accadendo.

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Una foto oscena – Djarah Kan

D’istinto ci è venuto in mente lo stesso pensiero. Ma preferiamo che ad esprimerlo sia Djarah Kan, una scrittrice di origini ghanesi che sulla propria pagina Instagram, a commento di questa vomitevole istantanea Ansa da Addis Abeba, scattata nella scuola coloniale italiana Galileo Galilei per bambini etiopi “scelti”, ha scritto :

“Che scatto osceno…

“Una cosa che ho imparato da bambina nera poverissima e coccolata anche dai peggiori fascisti è questa: sei carinissima finché sei un esemplare di piccola taglia perché non riconosci il bene dal male, non sai cosa voglia dire giustizia ed equità, e inoltre non hai la più pallida idea di cosa sia il fascismo, o il razzismo, o il capitalismo rapace e più furioso che spolpa il tessuto della tua gente da secoli, fino al midollo, lasciando in terra solo le ossa e la disperazione di chi vive con l’incubo di essere stato maledetto dalla povertà.

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Lo stato di Israele procede con i massacri di palestinesi, come e più di prima

Per coprire di silenzio e omertà i crimini di Israele, ci sono sempre “ottime ragioni”.

Da cinque mesi la più recente, “ottima ragione”, è la guerra in Ucraina tra Usa/Nato e Russia sulla pelle e il futuro delle sfortunate popolazioni ucraine. C’è questa guerra in prima pagina, tutto il resto va in un angolo, se c’è posto.

Eppure ne stanno accadendo di fatti drammatici in terra di Palestina!

L’ultimo massacro in corso è quello che il governo Lapid ha motivato con l’azione per “neutralizzare” la dirigenza militare di Jihad Islami – in un linguaggio dalle assonanze nazistoidi, “neutralizzare” sta per assassinare. Peccato che in questa operazione “mirata”, dopo alcuni giorni di bombardamenti sull’area di Gaza, all’alba dell’8 agosto si contassero 44 palestinesi uccisi, di cui 15 bambini e 4 donne, che stentiamo a credere siano alla testa delle operazioni militari di Jihad. I feriti sono più di 350.

Massacri a Jabaliya, massacro ad Al Bureji, dove la distruzione della famiglia Nabahin ha provocato la morte di tre adolescenti e del loro padre. Mentre a Gaza, il territorio-bersaglio dei raid punitivi, la centrale elettrica che alimenta anche gli ospedali riesce a produrre solo 4 ore di elettricità al giorno, e c’è una gravissima carenza di medicine e macchinari medici…

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L’islamofobia, un’arma contro gli immigrati islamici – IV (italiano – arabo)

L’11 settembre dello scorso anno abbiamo iniziato la pubblicazione a puntate di un ampio scritto contro l’islamofobia, opera di un redattore di questo blog. Lo scritto è di alcuni anni fa, ma conserva intatta la sua attualità. Ed è questa la ragione per cui l’abbiamo proposto.

Perché l’islamofobia era ed è un coltello nelle mani dei padroni contro i proletari e le popolazioni immigrate dai paesi di tradizione islamica, un’arma contro tutte le popolazioni immigrate, e per dividere i proletari autoctoni dai loro fratelli immigrati.

Siamo coscienti di essere isolati in questa denuncia, essendo il sentire di molti militanti profondamente bianco, e tutt’altro che alieno da sentimenti o pregiudizi islamofobici.

Non ci scoraggia affatto constatare che, a differenza di altri nostri testi rilanciati da più siti o blog, letti sul Pungolo rosso e altrove da migliaia di persone, a quelli contro l’islamofobia sia capitata una sorte differente. Al contrario, ci rafforza nella convinzione che bisogna continuare a battere su questo tasto. Ed è quello che faremo, certi che dagli sfruttati e dagli oppressi del “mondo islamico”, dai proletari e dalle proletarie immigrati in Italia e in Occidente dai paesi di tradizione islamica, verrà un contributo di grande importanza alla ripresa del movimento rivoluzionario internazionale e internazionalista.

Questa quarta puntata si concentra sui molteplici, pesanti effetti che l’islamofobia ha sull’esistenza delle popolazioni immigrate di fede, vera o presunta, islamica, e – per la proprietà transitiva – sull’esistenza di tutte le popolazioni immigrate.

Ad uso di chi dovesse leggerci per la prima volta su questo tema, ripubblichiamo la nota introduttiva che scrivemmo l’11 settembre.

[LEGGI VERSIONE IN ARABO DEL TESTO]

Precedenti puntate

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La macchina dell’islamofobia ha riacceso i motori. 

Dopo la bruciante sconfitta patita in Afghanistan dagli Stati Uniti e dalla Nato, era scontato. E il ventesimo anniversario dell’11 settembre è l’occasione d’oro per una ripartenza alla grande, chiamata a nutrire i propositi di rivincita.

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Contro l’islamofobia – III. La donna islamica tra l’incudine e il martello (italiano – arabo)

Pubblichiamo qui la terza parte dello scritto contro l’islamofobia, dedicata alla “questione di genere”. Nei giorni scorsi la decisione del governo talebano di imporre una serie di odiose restrizioni alla mobilità autonoma delle donne sul territorio afghano, è stata l’occasione per intonare per la milionesima volta l’abusata canzonaccia: lo vedete quanto sono trogloditi gli islamici, e quanto era e resta necessario ‘civilizzarli’ con ogni mezzo? Mentre in contemporanea Radio 3, quasi a fare il controcanto in apparenza “liberatorio”, mandava in onda l’entusiastica sponsorizzazione della mostra, a Treviso, della disegnatrice afghana Kubra Khademi che si è, per dir così, specializzata in nudi femminili.

A fronte dell’impudente esibizione del “femminismo imperialista” italiano, europeo, occidentale, non è tempo perso riproporre qui un testo che affronta la questione in chiave storica, e mostra quanto il colonialismo europeo abbia “fatto soffrire terribilmente tutte le donne “di colore” in ogni tempo e in ogni dove. Nelle encomiendas e nelle miniere. Come schiave oggetto di tratta e donne di schiavi. Come coolies e donne di coolies. Come serve domestiche e concubine forzate”. Tra queste, non certo ultime sono state le donne dei paesi arabi e di tradizione islamica. Da parte sua il neo-colonialismo ha battuto e batte tuttora, a volte con maggior accortezza e capacità mistificatoria, la stessa identica pista. Sicché la vera liberazione delle donne oppresse e sfruttate del mondo arabo ed islamico dai resistenti resti del patriarcalismo individuale, non potrà ricevere nessun tipo di aiuto dalle forze che diffondono nel mondo gli interessi e i motivi del patriarcalismo collettivo, che continua ad impazzare in Occidente, nonostante lo strombazzato principio di eguaglianza tra i generi e le contrastate battaglie delle masse femminili.

Qui i link alle due parti precedenti:
Contro l’islamofobia, arma di guerra – I. L’industria dell’islamofobia
Contro l’islamofobìa, arma di guerra – II. Il falso mito dell’Islam conquistatore e colonizzatore

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Per scongiurare questo fatale incontro [l’incontro tra i lavoratori immigrati e i lavoratori autoctoni che si sentono sempre più “immigrati” nella propria terra di nascita – n.], per tenere il più lontani, reciprocamente estranei ed ostili possibili le popolazioni, i lavoratori, gli sfruttati e le sfruttate del mondo “islamico” e quelli/e di “casa nostra”, l’orchestra anti-islamica torna di continuo su un altro motivo: l’oppressione della donna. L’Islam opprime le donne, da sempre. A “noi” euro-occidentali il nobile compito di liberare le prigioniere dal loro carcere. Non, però, un semplice compito tra gli altri; piuttosto un dovere inderogabile, una mission affascinante. I campioni del colonialismo storico à la Cromer ne fecero un proprio punto d’onore. I loro epigoni di oggi ci tengono a non sfigurare, e si affollano ardenti attorno alle bandiere del femminismo [imperialista].

Non voglio imbarcarmi in una disputa sul lontano passato circa l’islam e la donna. Dichiaro semplicemente di concordare con la logica di indagine e le (provvisorie) conclusioni di L. Ahmed[1]. A suo parere l’islam dei primordi ha sotto alcuni aspetti migliorato la condizione della donna in Arabia, ponendo limiti al ripudio, alla poligamia, garantendole alcuni diritti patrimoniali e, soprattutto, affermando un’etica “irriducibilmente egualitaria” anche nel rapporto tra i sessi. E tuttavia l’Islam si affermò in un contesto medio-orientale già divenuto solidamente patriarcale sotto gli imperi bizantino e sassanide. Da questo contesto, dalle culture giudaica, zoroastriana, cristiano-bizantina che lo dominavano, il movimento islamico assorbì ben presto l’inferiorizzazione sociale e spirituale della donna, attuata per mezzo della sua riduzione a mera “funzione biologica, sessuale e riproduttiva”. Venne così meno, almeno nei suoi filoni maggioritari ortodossi, ai propri postulati etici. Non diversamente che nel cristianesimo, solo nelle tendenze ereticali, tra i sufi, i carmati, i kharigiti, troviamo un maggior riconoscimento effettivo della “pari dignità” della donna, con il divieto del concubinato, della poligamia, del matrimonio con le bambine e l’ammissione della donna al ruolo di guida religiosa. Dopo l’avvento delle società urbane e delle “prime forme statuali”, furono le guerre di conquista a far precipitare la condizione sociale delle donne, consentendo una estensione inaudita della schiavitù e del concubinato. Lo aveva inteso per tempo la ribelle, tagliente Aisha: “voi ci fate uguali ai cani e agli asini”. Nei fatti, in parziale contrasto con i principi coranici e con alcune prassi dei primordi, la diffusione e il trionfo dell’Islam sancì la disuguaglianza tra maschio e femmina come vera e propria “architettura sociale[2]. E tale rimase per secoli senza grandi scosse, fino all’irruzione del colonialismo europeo.

La soggezione sociale e personale della donna all’uomo non è certo un’esclusiva delle società “islamizzate”. È una caratteristica generale di quasi tutte le società pre-borghesi, politeiste e monoteiste, buddiste e confuciane, islamiche e cristiane (escluse le società naturali). Solo la tempesta rivoluzionaria francese iniziò a mettere in discussione questa storica disuguaglianza. Ma di lì a poco il Code Napoléon la riaffermò con la forza della legge, facendosi beffe delle perorazioni di Olympe de Gouges e di Mary Wollstonecraft. L’uomo è il capo della famiglia. Punto. La donna gli deve ubbidienza, e ne riceverà, in quanto essere fragile, protezione (art. 213). Parole troppo dure? Vengono da San Paolo, si giustificò uno dei legislatori della laica Repubblica-Impero nata dalla rivoluzione[3]. Ancora nel 1843, nell’Europa che aveva già da tempo iniziato a “civilizzare” il mondo “islamico” e che aveva già da tempo trascinato molte donne a lavorare nelle fabbriche, Flora Tristan doveva definire le donne “gli ultimi schiavi”, oggetto di proprietà, in un certo senso, dei propri mariti…

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