L’internazionale nera colpisce ancora, e colpisce con particolare veemenza le donne – Comitato 23 settembre

Manifestanti per la “libertà di scelta” protestano in seguito alla decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti di ribaltare la sentenza Roe v. Wade – Los Angeles, California, 24 giugno 2022

L’internazionale nera colpisce ancora. E colpisce con particolare veemenza le donne.

La campagna antiabortista scatenatasi negli Usa, all’avanguardia nell’esportazione della democrazia nel mondo, va ben al di là di qualche setta di fanatici oscurantisti che vorrebbero far girare all’indietro la ruota della storia. È di qualche settimana fa la notizia del licenziamento di un giudice della Florida per essersi espresso contro le provocatorie leggi antiabortiste e discriminatorie contro i giovani LGBTQ firmate dal governatore dello stato, rifiutandosi di perseguire chi “cerca, fornisce o sostiene gli aborti”. Essa vede scendere in campo con sempre maggiore convinzione il grande capitale, che è ben consapevole della gravità della crisi che il mondo intero sta attraversando.

Una crisi che non si risolverà da sé, ma che richiede misure drastiche, già messe in atto con la guerra in Ucraina e il suo inarrestabile sviluppo. La possibilità che questo macello (di proletari di ambo la parti) prosegua, risiede nel disciplinamento e nello schiacciamento della massa della popolazione, in primis le donne, gli immigrati e la grande massa dei lavoratori salariati.

Le donne in particolare, devono essere blindate nel loro ruolo di super-sfruttate, di fattrici, di cura e sostegno di tutti quei settori di popolazione che saranno sempre meno sostenuti dallo stato, oltre che di oggetti sessuali e di premio ai vincitori nelle guerre. Perciò dovranno chinare la testa e stare zitte. Per realizzare questo obiettivo che è presente a livello mondiale, con l’avanzare della destra che non ha scrupoli di “politicamente corretto”, non basterà certo qualche predica in chiesa o qualche cartellone pubblicitario sulle gioie della maternità: stanno da tempo scendendo i campo i poteri forti.

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Gli Stati Uniti: verso una seconda guerra civile?, di A. Simardone (Counterpunch)

Questo articolo che riprendiamo da Counterpunch pecca, e non poco, di schematismo, di semplificazioni eccessive. Su più aspetti: sull’Urss, sulla Cina, sulle elezioni, sulla sinistra statunitense, e su altro ancora, perfino sul suo tema centrale: le radici delle acute contraddizioni che spingono gli Stati Uniti verso una “seconda guerra civile”, e che hanno fatto rinascere tentazioni secessioniste in diversi stati dell’Unione. Nello sforzo di sintetizzare in breve e in chiaro vicende storiche di estrema complessità il suo tono complessivo appare alquanto naive.

La ragione per cui lo riprendiamo è che, pur con questi difetti molto rilevanti, dà conto di un dato di realtà che qui in Italia è quasi sconosciuto: in Amerika si discute ormai da anni, apertamente, della possibilità di una nuova guerra civile. E non si tratta semplicemente di una manovra diversiva per impedire schieramenti contrapposti di capitalisti e di proletari. Si tratta anche, se non anzitutto, della crescente difficoltà di ricomporre ad unità gli interessi dei diversi settori del capitale statunitense da parte di un establishment politico chiamato a gestire la perdita del dominio incontrastato e di egemonia nel mondo dell’asse Washington-Wall Street.

L’altro merito di Alain Simardone, sempre con i limiti sopra indicati, è che non ha esitazioni nel contrapporre lo sviluppo della lotta di classe anti-capitalista alla prospettiva della guerra civile – ben centrato è quanto si dice sull’immigrazione e sul rapporto lavoratori immigrati – lavoratori autoctoni. Certo, gli ultimatisti troveranno – ed è vero – che in questo articolo mancano i soviet, la strategia per la presa del potere, il programma di transizione e quant’altro. Viene colto bene, però, il grande pericolo, per gli sfruttati, di lasciarsi coinvolgere nelle “prove” di guerra civile inter-capitalistica (o di secessionismo), e il punto a cui è arrivato – al momento – il dibattito. E a differenza che in Italia dove c’è per tradizione una sovrapproduzione di ciarlatani, negli Stati Uniti il dibattito ha sempre conseguenze pratiche. (Red.)

Una seconda guerra civile?

Di AIDAN SIMARDONE

L’estrema destra la brama, i liberali la temono. Dopo l’attacco al Campidoglio del 2021, la possibilità di una seconda guerra civile americana è entrata nel dibattito mainstream. L’estrema destra la fa propria, un’apocalisse che darà vita ad uno stato di bianchi su base etnica. Spaventati, i liberali chiedono riforme elettorali e giudiziarie, o si richiamano ai bei tempi di Obama e Clinton, quando il consenso neoliberale garantiva una politica civile.

Socialisti e marxisti respingono l’idea che sia possibile una guerra civile. In base al loro principio secondo cui: “Ti fanno combattere una guerra culturale/ideologica per impedirti di combattere una guerra di classe”. Ciò nella presunzione che le guerre culturali siano superficiali, prive di una base economica. Dimenticando che la lotta di classe non è solo tra classi, ma anche all’interno delle classi. In America sta emergendo un conflitto tra capitalisti urbani e capitalisti rurali, con le guerre culturali/ideologiche usate come strumento di reclutamento della classe operaia. Se da un lato è nell’interesse collettivo dei capitalisti combattere la classe operaia, dall’altro è nell’interesse individuale di ciascun capitalista combattersi a vicenda con gli latri capitalisti per conquistare posizioni di monopolio. Di solito questo avviene tramite il mercato. Ma quando l’espansione del mercato raggiunge il suo limite, la guerra diventa un ulteriore mezzo per l’accumulazione del capitale.

Durante la “corsa all’Africa”, l’Europa godeva di una relativa pace mentre saccheggiava l’Africa. Finché ci furono altre terre africane da conquistare, la guerra non fu necessaria. Ma quando non ci furono, gli imperialisti europei dovettero combattere gli uni contro gli altri. Fu così che scoppiò la Prima Guerra Mondiale. Naturalmente, i capitalisti non combatterono direttamente tra loro. Il nazionalismo aiutò a reclutare la classe operaia nella guerra, guerra per la quale non essa aveva alcun interesse economico.

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Stati Uniti: nel 2022 la violenza della polizia ha toccato il suo record storico, di Sonali Kolhatkar (italiano – English)

Diciamolo subito: la logica di questo articolo (la riduzione dei fondi alla polizia) non è la nostra. Ma l’articolo fornisce elementi molto utili per comprendere cosa sta accadendo in questa materia – la violenza omicida classista e razzista della polizia amerikana – sotto l’amministrazione Biden, che pure aveva in qualche misura occhieggiato al grande movimento di lotta nero e multirazziale dell’estate 2020, Black Lives Matter. “Business as usual”, tutto come prima, anzi: più di prima (sotto l’amministrazione Trump). Come, del resto, in materia di persecuzione contro gli immigrati privi di documenti o desiderosi di entrare negli Stati Uniti.

Per i milioni di giovani e meno giovani degli Stati Uniti protagonisti di BLM o partecipanti ad esso, una importante lezione. Non è con il voto che si spazzerà via la violenza di stato e quella privata dalla società statunitense in evidente processo di decomposizione (ad oggi, 24 gennaio 2023, oltre 40 sparatorie ‘di massa’ con morti e feriti dall’inizio dell’anno…), né le sue altre innumerevoli patologie sociali. Non è questione di spostamento di fondi, di rettifica dei bilanci federali o locali, ma di un sistema sociale produttore di violenza e di morte su scala inesorabilmente crescente, che ha fatto il suo tempo e va rovesciato.

Per chi guarda da fuori degli Stati Uniti, una ragione in più per respingere al mittente la demagogia dei portatori di libertà e di diritti nel mondo intero a suon di B-52, missili Sea Sparrow, veicoli Bradley, portaerei e quant’altro. Quale che sia il potere del dollaro (declinante anch’esso, peraltro), la perdita di attrattiva del “modello amerikano” nel mondo è definitiva. (Red.)

Click here to read the original English versione of Kolhatkar’s article.

Il 2022 è stato l’anno più letale mai registrato negli Stati Uniti per quanto riguarda i decessi per mano delle forze dell’ordine. Secondo il database delle sparatorie della polizia del Washington Post, l’anno scorso le forze dell’ordine hanno ucciso 1.096 persone. L’anno precedente ci sono stati 1.048 morti per mano della polizia, 1.019 l’anno prima, 997 l’anno prima ancora e così via.

E’ molto probabile che questi numeri siano sottostimati. Secondo Abdul Nasser Rad, direttore generale della ricerca e dei dati di Campaign Zero, che gestisce Mapping Police Violence, il Washington Post “enumera solo gli incidenti in cui un agente di polizia scarica la propria arma da fuoco e la vittima viene uccisa”. Ciò significa che, per esempio, non vengono conteggiati eventi come l’uccisione di Eric Garner a New York nel 2014 e l’uccisione di George Floyd in Minnesota nel 2020, poiché entrambi i decessi sono avvenuti per asfissia.

Al contrario, Mapping Police Violence include qualsiasi azione compiuta da un agente delle forze dell’ordine che si traduca in un evento fatale. Ad esempio, il progetto di Rad ha concluso che la polizia ha ucciso 1.158 persone nel 2021, contro le 1.048 del Post (i risultati finali per il 2022 non sono ancora disponibili).

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Il pugno di ferro di Biden e del Senato contro lo sciopero generale dei ferrovieri: vietato!

Il governo di Washington, l’inflessibile, l’instancabile promotore universale dei “diritti umani” (i diritti dell’imperialismo, s’intende), non scherza neppure in casa propria. Per ieri, 9 dicembre, era fissato il più grande sciopero dei ferrovieri degli ultimi decenni, ma a pochi giorni dall’evento, la banda-Biden ha fatto votare dal Senato (risultato: 80 a 15) una legge che obbliga i ferrovieri ad accettare senza scioperare la proposta padronale che la maggioranza di loro aveva respinto.

E sì che, nel settembre dello scorso anno, Biden aveva giurato: “Intendo essere il presidente più a favore dei sindacati, alla guida dell’amministrazione più a favore dei sindacati nell’intera storia degli Stati Uniti”, esaltando così al massimo grado il ruolo di spacciatori di menzogne dei “capitalist politicians”, i politici al servizio del capitale. Inutile specificare che Biden (come la Pelosi) ha insistito sulla supposta necessità di «proteggere milioni di famiglie lavoratrici da danni e dai disagi e di mantenere intatta la catena di approvvigionamento nel periodo delle feste», salvo aggiungere entrambi che l’obiettivo della sua decisione è quello di evitare «una catastrofe economica»…

Di questa brutale violazione delle necessità più elementari dei lavoratori – i ferrovieri chiedevano anzitutto il pagamento dei giorni di malattia, che oggi sono a loro totale carico – non si trova una sola parola sull’arcipelago dei nostrani siti anti-americani che si vogliono ancora “di sinistra”, a riprova che i loro attacchi agli Stati Uniti e alla NATO sono solo ed esclusivamente in chiave nazionalista, per difendere gli interessi dell’Italia, del paese-Italia, della nazione-Italia, della “sovranità” dell’Italia, del capitalismo made in Italy.

Dal fronte di classe opposto, noi internazionalisti abbiamo invece lo sguardo fisso sui movimenti dell’altra America, la nostra America, l’America degli sfruttati neri bianchi marroni, che si sta rimettendo in movimento su scala sempre più ampia, e che, anche se non ha avuto questa volta la forza di ribellarsi a questa legge ammazza-sciopero, continua a prendere coscienza, per diretta esperienza, dell’abissale distanza che corre tra le istituzioni del governo e dello stato e la classe lavoratrice – premessa alla presa di coscienza del carattere antagonistico di questo rapporto.

Su tutta la vicenda, che ha avuto un’eco ben al di là della categoria, presentiamo qui di seguito la sintesi di un articolo di recente pubblicazione sul portale di Labor Notes, in cui Ross Grooters, co-presidente della Railroad Workers United (RWU), offre alcune valutazioni sulla lotta dei ferrovieri di sicuro interesse. (Red.)

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Al fine di evitare uno sciopero che si preannunciava in grado di paralizzare l’attività del settore per la prima volta da trent’anni a questa parte, lo scorso 1° dicembre è stata imposta a 120.000 lavoratori nel trasporto ferroviario degli Stati Uniti l’accettazione di un nuovo contratto di categoria.

Questa è la risposta dell’amministrazione Biden a tre anni di negoziati e tentativi di mediazione conclusisi con un nulla di fatto, dopo che la maggior parte dei lavoratori aveva rifiutato le condizioni proposte, non rispondenti ai loro bisogni autentici e in particolare all’ottenimento del congedo per malattia retribuito.

Il Congresso ha trascurato i risultati delle votazioni degli iscritti alle dodici sigle sindacali del settore ferroviario, imponendo un accordo specifico frutto della “mediazione” tra quanto suggerito da un consiglio presidenziale di emergenza (da anni c’è sempre qualche emergenza da invocare) e gli “aggiustamenti” proposti dal Segretario del Lavoro degli Stati Uniti, Marty Walsh. Tale proposta era stata messa ai voti, e nonostante otto sindacati la avessero accolta (sebbene non tutti alla prima votazione), i restanti quattro – rappresentanti più del 55% dei lavoratori del settore – l’avevano respinta.

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Sciopero di 50.000 precari all’università della California, di Sonali Kolhatkar

A differenza di coloro per i quali l’Amerika è CIA, Pentagono, Pfizer, Amazon e Tesla, e tutto il resto è nulla (oh, dimenticavamo l’onnipotente Soros, chiediamo scusa), noi che non trascuriamo un solo momento i misfatti di queste potenti istituzioni altamente umanitarie, consideriamo invece gli Stati Uniti d’America una società, una società divisa in classi, sempre più polarizzata, e nella quale – per ragioni profonde riassumibili nel declino del dominio amerikano nel mondo – la lotta di classe ed anche quelle di “razza” e di genere sono destinate ad acutizzarsi, quale che sia il partito al potere. L’ultimo segnale di lotta di classe viene dalle decine di migliaia di lavoratori/lavoratrici “accademici” dell’Università della California protagonisti di uno “sciopero storico” contro la pesante perdita di potere d’acquisto dei loro stipendi / salari. Non si tratta certo di un settore centrale del proletariato nord-americano, e neppure li si può considerare appartenenti al proletariato. Eppure… leggete questo breve report e arrivate fin dove si dice: come i lavoratori della UC siano stati ispirati dalle azioni dei lavoratori di Starbucks negli Stati Uniti, così come da altre aziende e lavoratori in tutto il mondo. Interessante, no? Del resto le università di tutto il mondo sono sempre più delle aziende e applicano criteri integralmente capitalistici non solo ai propri dipendenti che svolgono lavoro amministrativo, di manutenzione degli edifici o del parco macchine, di pulizia, etc.,. ma anche a quelli che svolgono attività di ricerca e di insegnamento. (Red.)

L’Università della California si ferma a causa dello sciopero dei lavoratori accademici

Quasi 50.000 lavoratori accademici dell’Università della California (UC) hanno lanciato uno sciopero storico il 14 novembre dopo il fallimento delle trattative contrattuali con il loro datore di lavoro. Studiosi post-dottorato, ricercatori, tirocinanti, borsisti, assistenti, lettori e tutor, che provengono da dieci campus dell’UC in tutto lo stato e sono sindacalizzati con United Auto Workers, hanno lasciato il lavoro.

Tali lavoratori non sono tradizionalmente associati ad azioni sindacali militanti, perché, storicamente, il lavoro intellettuale è ben ricompensato negli Stati Uniti. Tuttavia, con l’adozione in maniera sempre crescente da parte delle università di modelli operativi aziendali, ha preso piede nel mondo accademico un modello retributivo analogo a quello di altri settori, con i dirigenti amministrativi che guadagnano bei soldoni mentre i lavoratori di base hanno visto i loro salari contrarsi rispetto all’inflazione. In cima alla lista delle richieste dei lavoratori c’è una migliore paga, legata al costo della vita, e in particolare al costo degli alloggi.

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