Gli Stati Uniti: verso una seconda guerra civile?, di A. Simardone (Counterpunch)

Questo articolo che riprendiamo da Counterpunch pecca, e non poco, di schematismo, di semplificazioni eccessive. Su più aspetti: sull’Urss, sulla Cina, sulle elezioni, sulla sinistra statunitense, e su altro ancora, perfino sul suo tema centrale: le radici delle acute contraddizioni che spingono gli Stati Uniti verso una “seconda guerra civile”, e che hanno fatto rinascere tentazioni secessioniste in diversi stati dell’Unione. Nello sforzo di sintetizzare in breve e in chiaro vicende storiche di estrema complessità il suo tono complessivo appare alquanto naive.

La ragione per cui lo riprendiamo è che, pur con questi difetti molto rilevanti, dà conto di un dato di realtà che qui in Italia è quasi sconosciuto: in Amerika si discute ormai da anni, apertamente, della possibilità di una nuova guerra civile. E non si tratta semplicemente di una manovra diversiva per impedire schieramenti contrapposti di capitalisti e di proletari. Si tratta anche, se non anzitutto, della crescente difficoltà di ricomporre ad unità gli interessi dei diversi settori del capitale statunitense da parte di un establishment politico chiamato a gestire la perdita del dominio incontrastato e di egemonia nel mondo dell’asse Washington-Wall Street.

L’altro merito di Alain Simardone, sempre con i limiti sopra indicati, è che non ha esitazioni nel contrapporre lo sviluppo della lotta di classe anti-capitalista alla prospettiva della guerra civile – ben centrato è quanto si dice sull’immigrazione e sul rapporto lavoratori immigrati – lavoratori autoctoni. Certo, gli ultimatisti troveranno – ed è vero – che in questo articolo mancano i soviet, la strategia per la presa del potere, il programma di transizione e quant’altro. Viene colto bene, però, il grande pericolo, per gli sfruttati, di lasciarsi coinvolgere nelle “prove” di guerra civile inter-capitalistica (o di secessionismo), e il punto a cui è arrivato – al momento – il dibattito. E a differenza che in Italia dove c’è per tradizione una sovrapproduzione di ciarlatani, negli Stati Uniti il dibattito ha sempre conseguenze pratiche. (Red.)

Una seconda guerra civile?

Di AIDAN SIMARDONE

L’estrema destra la brama, i liberali la temono. Dopo l’attacco al Campidoglio del 2021, la possibilità di una seconda guerra civile americana è entrata nel dibattito mainstream. L’estrema destra la fa propria, un’apocalisse che darà vita ad uno stato di bianchi su base etnica. Spaventati, i liberali chiedono riforme elettorali e giudiziarie, o si richiamano ai bei tempi di Obama e Clinton, quando il consenso neoliberale garantiva una politica civile.

Socialisti e marxisti respingono l’idea che sia possibile una guerra civile. In base al loro principio secondo cui: “Ti fanno combattere una guerra culturale/ideologica per impedirti di combattere una guerra di classe”. Ciò nella presunzione che le guerre culturali siano superficiali, prive di una base economica. Dimenticando che la lotta di classe non è solo tra classi, ma anche all’interno delle classi. In America sta emergendo un conflitto tra capitalisti urbani e capitalisti rurali, con le guerre culturali/ideologiche usate come strumento di reclutamento della classe operaia. Se da un lato è nell’interesse collettivo dei capitalisti combattere la classe operaia, dall’altro è nell’interesse individuale di ciascun capitalista combattersi a vicenda con gli latri capitalisti per conquistare posizioni di monopolio. Di solito questo avviene tramite il mercato. Ma quando l’espansione del mercato raggiunge il suo limite, la guerra diventa un ulteriore mezzo per l’accumulazione del capitale.

Durante la “corsa all’Africa”, l’Europa godeva di una relativa pace mentre saccheggiava l’Africa. Finché ci furono altre terre africane da conquistare, la guerra non fu necessaria. Ma quando non ci furono, gli imperialisti europei dovettero combattere gli uni contro gli altri. Fu così che scoppiò la Prima Guerra Mondiale. Naturalmente, i capitalisti non combatterono direttamente tra loro. Il nazionalismo aiutò a reclutare la classe operaia nella guerra, guerra per la quale non essa aveva alcun interesse economico.

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Calore e siccità stanno cuocendo il mondo a morte. Ringraziate il cambiamento climatico, di E. Ottemberg

Panamint Valley, Death Valley National Park. Photo: Jeffrey St. Clair.

Riprendiamo da “Counterpunch” un articolo di E. Ottemberg dell’8 giugno scorso dedicato ai fenomeni climatici estremi che stanno colpendo gli Stati Uniti e molte altre zone del mondo, con un impatto devastante sui paesi più poveri. Il testo della Ottemberg è interessante per le informazioni che dà. E coraggioso per la denuncia che fa, da cittadina statunitense, dei poteri costituiti del “suo” Paese, senza perdersi in distinzioni fatue tra repubblicani e democratici, benché sia un dato di fatto che alcuni repubblicani (tra cui la deputata M. Taylor Greene) si segnalino per l’attacco frontale alla stessa idea di una catastrofe ecologica e climatica in atto. Tuttavia, come per altre valenti polemiste (prima tra tutte la Naomi Klein), mentre è leggibile nelle loro analisi e denunce, almeno in filigrana, un orientamento anti-capitalistico, al tempo stesso – e contraddittoriamente – il suo e loro discorso appare inficiato dall’ingenua speranza riposta in politici diversi dai Biden e Trump, che potrebbero fare questo e quello, esser meno “folli” e “suicidi”, distruggendo in questo modo con una mano quello che fanno con l’altra. Questa contraddizione è propria, finora, anche di tutte le formazioni e i movimenti ecologisti – ma non è una buona ragione per ascriverli una volta e per tutte all’impotente riformismo. Abbiamo fiducia nella forza dell’oggettività sempre più drammatica che ci viene incontro, e alla capacità di convincere della critica rivoluzionaria.

Il pianeta brucia e gli incendiari sono al comando, per riprendere una battuta dell’ambientalista Naomi Klein. Alcuni dei più devoti incendiari siedono alla Corte suprema degli Stati Uniti. Una prova? La recente soppressione, da parte della corte di Koch, dell’Agenzia per la protezione ambientale creata da Nixon.

Il canarino nella miniera di carbone è morto. Morto stremato per il calore. Con lui se ne sono andati molti esseri umani, rimasti senza difese di fronte al collasso climatico: in India questa primavera, nel sud-ovest, nel Midwest e nel sud degli Stati Uniti in tarda primavera, nello Xinjiang, in Cina, in primavera e in gran parte dell’Africa in questo momento. Ciò è avvenuto prima ancora che il calore estivo iniziasse davvero ad arroventare l’aria. L’estate scorsa il nord-ovest americano ha cotto a 116 gradi Fahrenheit [46,6 Celsius] per giorni, e in luoghi come la città di Lytton, nella Columbia Britannica, il mercurio ha raggiunto i 122 gradi [50 C], prima che la città si incendiasse spontaneamente e fosse rasa al suolo. Questa tostatura, che un tempo si verificava una volta in un millennio, ora, a causa del cambiamento climatico indotto dall’uomo, avviene ogni anno in vaste aree del pianeta. Le estati in questi giorni a Reno, in Nevada, sono in media di 10,9 gradi più calde rispetto al 1970, mentre in paesi come l’Iraq certe giornate raggiungono temperature di 120 gradi [48,8 C]]. E la maggior parte degli iracheni non ha l’aria condizionata.

Quindi è stato un po’ difficile dispiacersi per gli europei disperati per le temperature comprese tra 104 e 109 gradi [40-42,7 C], a metà giugno. È un lusso, rispetto a ciò che i senzatetto in India e nel grande Medio Oriente sono costretti a sopportare. Perché molti europei hanno l’aria condizionata. Una fortuna che non tocca a coloro che dormono, e spesso tirano le cuoia, sul cemento bollente delle autostrade del subcontinente.

Eppure anche il riscaldamento europeo ha battuto il suo record, come sembra fare ogni nuova ondata di caldo in questa fase iniziale del collasso climatico. La Catalogna, in Spagna, ha raggiunto i 109 gradi [42,7], una delle temperature più calde di sempre, mentre le temperature di 104 gradi in Francia sono state, secondo il Washington Post del 2 giugno, “le più alte temperature del paese nella storia”.

Caldo estremo significa siccità, e siccità significa niente cibo. Così in molte zone del mondo si osserva la carestia espandersi sui terreni agricoli ormai desertificati. In Kenya, Somalia ed Etiopia, le persone stanno morendo di fame. Si calcola che le vittime siano 23 milioni di persone, secondo Oxfam – cifre che mettono in pessima luce i paesi del G7 riunitisi il 28 giugno, per aver fatto troppo poco per questo disastro, “per aver lasciato milioni di persone morire di fame e cuocere il pianeta”. In tutto il mondo “323 milioni di persone sono a rischio di denutrizione e si prevede che 950 milioni (quasi un miliardo!) soffriranno la fame nel 2022”, ha tuonato Oxfam contro gli Stati Uniti e i suoi sodali europei.

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“Giochi di guerra” USA nel Sud-Est asiatico. Verso lo scontro con la Cina, di V. G. Limon e S. Yamada (Counterpunch)

The United Kingdom’s carrier strike group led by HMS Queen Elizabeth, and Japan Maritime Self-Defense Forces led by Hyuga-class helicopter destroyer JS Ise joined with U.S. Navy carrier strike groups led by flagships USS Ronald Reagan and USS Carl Vinson to conduct multiple carrier strike group operations in the Philippine Sea, Oct. 3, 2021. Photo: US Navy.

As China fortifies outcroppings in the West Philippine Sea into military bases, the US conducts “freedom of navigation” incursions by military aircraft and warships. In April, the US sent 5,000 troops to the Philippines for Balikatan war exercises, which ended on the day before Chinese President Xi Jinping’s virtual meeting with then Philippine President Rodrigo Duterte.

Riprendiamo da Counterpunch una denuncia di V. G. Limon e S. Yamada dell’azione sempre più aggressiva dell’imperialismo USA nel Sud-Est asiatico – che, al di là delle debolezze politiche di impostazione, ha un valore particolare perché è una denuncia dei piani di guerra del “proprio” imperialismo. Il fronte orientale, trascurato in Europa anche da parte della sinistra militante, è cruciale e si sta surriscaldando in misura crescente dallo scoppio del conflitto tra Russia ed Occidente in Ucraina. Gli autori danno un resoconto di alcune minacciose manovre di guerra compiute dagli Stati Uniti nell’area con il supporto di Filippine, Taiwan, Sud Korea, Okinawa, Giappone e Guam. Chiariscono come questa postura particolarmente aggressiva, incoraggiata da H. Clinton, risalga al 2011, in esplicita funzione di contrasto all’ascesa della potenza anche militare cinese. Al riguardo, diciamo per inciso, va infatti tenuta ben presente anche la risposta della Cina sul piano del riarmo e delle manovre belliche statunitensi, in particolare con la costruzione di sei gruppi da battaglia di portaerei da portare a termine entro il 2035su cui rinviamo a questa scheda.

L’articolo di Limon e Yamada denuncia il carattere ipocrita e antisociale di questi “giochi di guerra”. Per il primo aspetto, viene additato lo storico sostegno statunitense alle forze reazionarie filippine oggi incarnate dal presidente “Bongbong” Marcos, rampollo di una dinastia di – come altro chiamarli? – dittatori. Siamo esattamente in tema di autocrazie care all’Occidente. La retorica della pace e dei diritti umani viene così opportunamente smascherata. La corsa verso una guerra inter-imperialistica mondiale è vista come la quintessenza di quanto soprattutto nel Sud globale causa povertà, fame, malattie, facendo incombere uno scenario di distruzione totale. L’articolo ha poi il merito di evidenziare l’impatto anche ambientale delle manovre militari. Gli autori concludono dando voce ai movimenti ed associazioni democratici ed ecologisti che nelle Hawaii e nelle Filippine sono scesi in campo – iniziative che rischiano di venire soffocate. Cominciando a maturare la consapevolezza di quanto reale sia la prospettiva di un’ecatombe, dobbiamo lavorare allo sviluppo di un movimento organizzato e schiettamente internazionalista delle donne e degli uomini che vivono del proprio lavoro, che dichiari, finalmente, guerra alla guerra.

A strange group of visitors are arriving in Hawaiʻi: 38 battleships, four submarines, more than 170 aircraft, nine national land forces, and some 25,000 personnel from more than two dozen countries. These war machines come every other year to participate in the Rim of the Pacific (RIMPAC) exercises, the largest naval exercise in the world, hosted by the US Navy since 1971.

One contingent in these war games will stand out: a lone frigate bearing the name of Antonio Luna, the firebrand Philippine revolutionary army general who led the military resistance against invading US troops during the Philippine-American War. This warship will represent the present-day Philippine armed forces, now allied with, trained, and funded by its former military foe.

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Portare Taiwan nella NATO, o la NATO a Taiwan?, di Eve Ottenberg

Alla fine di aprile, la Gran Bretagna, la cagnolina di lusso degli Stati Uniti, rappresentata dalla dimenticabile Liz Truss, ha urlato che la NATO dovrebbe essere più coinvolta nell’Estremo Oriente. Che dio ci aiuti! La NATO ha già creato abbastanza guai in Ucraina per un’intera generazione. Forse ne ha creati così tanti che porrà fine a tutte le generazioni future.

Un compagno ci ha segnalato questo vibrante scritto di Eve Ottenberg comparso due giorni fa sul sito statunitense Counterpunch, accompagnandolo con questo pungente commento: “Eccoci! Prossima mossa: Taiwan entra nella NATO!”. Ci siamo permessi, perciò, di modificare il titolo originario del testo, che trovate qui sotto, sicuri di non tradirne il senso d’insieme. Non ci sfugge che la brava polemista non sembra afferrare la radice profonda, materialmente determinata, di questa furiosa, cieca voglia di distruzione e di guerra che possiede le alte sfere del Congresso, delle amministrazioni statunitensi, delle grandi corporations e degli enti finanziari che li hanno in pugno – anche se nelle batture finali Ottenberg parla degli Stati Uniti come di un “potere egemone insicuro”. Ma non pretendiamo troppo. Del resto, sono temi fissi del nostro blog tanto il lungo declino del super-imperialismo statunitense quanto la crisi sempre più profonda dell’intero sistema sociale capitalistico, e la combinazione esplosiva, incontrollabile tra questi due processi. Invece di farle le pulci, prendiamo sul serio le notizie che ci dà e l’allarme che lancia. (Red.)

Freschi di Russia, gli Stati Uniti non riescono a smettere di provocare la Cina

In un atto di ipocrisia cieco e vertiginoso, gli Stati Uniti hanno recentemente dichiarato che invaderanno le Isole Salomone, se il nuovo patto che quel paese ha concluso con Pechino comporterà la costruzione lì di una base militare cinese. Questo, dopo mesi in cui i nostri politici hanno urlato come pazzi deliranti sul male apparentemente impareggiabile e mai visto prima della Russia che invade l’Ucraina, con un pieno di paragoni tra Putin e Hitler. Ebbene: se Biden invade le Isole Salomone, è Hitler? Del resto, che dire di George Bush, che ha invaso l’Iraq e l’Afghanistan? È Hitler? E il britannico Tony Blair: è Hitler?

Inoltre, le centinaia se non migliaia di governanti nella storia umana che hanno invaso paesi stranieri sono tutti Hitler? Immagino che abbiamo già dimenticato la parte in cui Hitler sterminò sei milioni di ebrei insieme a milioni di slavi, rom, comunisti e altri cosiddetti indesiderabili. Questo sterminio, a quanto pare, non è più considerato una caratteristica distintiva del male unico costituito da Hitler. In quale altro modo spiegarci, se no, che le accuse di essere Hitler sono una dozzina in questi giorni? Tale retorica a buon mercato non serve a niente per aiutare gli ucraini comuni che stanno soffrendo. Ma sicuramente aiuta i dirigenti d’impresa guerrafondai a diventare più ricchi. Questo è il punto.

“Ma, ma”, balbettano i residenti di Washington ubriachi di potere, mentre le azioni delle compagnie del settore militare salgono alle stelle (oltre il 60 percento dall’invasione della Russia): “l’ordine dev’essere basato sulle regole!”. Questa è la bugia con cui l’impero statunitense elude il diritto internazionale con l’affermare che le sue “regole” si applicano a tutti tranne che a Washington. Fatto sta che ultimamente, il mondo civilizzato, soprattutto il Sud del mondo, non si beve queste sciocchezze. Se si esclude l’Europa, il trucco non funziona da nessuna parte.

La Cina è il nemico numero uno di Washington. Anche se non lo si direbbe, dato il feroce clamore che sta facendo sulla Russia, deliberatamente provocata (dall’Occidente), e sulla terribile invasione dell’Ucraina. Alla fine di aprile, la Gran Bretagna, la cagnolina di lusso degli Stati Uniti, rappresentata dalla dimenticabile Liz Truss, ha urlato che la NATO dovrebbe essere più coinvolta nell’Estremo Oriente. Che dio ci aiuti! La NATO ha già creato abbastanza guai in Ucraina per un’intera generazione. Forse ne ha creati così tanti che porrà fine a tutte le generazioni future. Lo scopriremo. Ma i guerrafondai di Washington sono d’accordo con Truss [noi spieghiamo in un altro testo postato oggi che è piuttosto Truss ad essere portavoce dei guerrafondai di Washington – red.]. In effetti, costoro propongono persino – ed è una proposta da incubo – di armare il Giappone con armi nucleari, sentendosi frustrati per non poter circondare la Cina di missili come hanno fatto con la Russia. Quell’accerchiamento ha provocato la guerra in Ucraina, che, secondo tutte le indicazioni, Washington considera uno strepitoso successo propagandistico.

Nel frattempo, nei media occidentali è stato sottostimato l’avvertimento lanciato dalla Cina agli Stati Uniti il 29 aprile contro l’invio di armi a Taiwan. La Cina ha annunciato che risponderà all’intervento straniero. Questa rabbiosa risposta a Washington è arrivata in un contesto difficile: il 26 aprile, per minacciare la Cina e mostrare i propri muscoli, il cacciatorpediniere USS Sampson è transitato nello Stretto di Taiwan, cosa che a detta della Settima Flotta “dimostra l’impegno degli Stati Uniti per un Indo-Pacifico libero e aperto”. Oh, oh. Ciò che dimostra è l’impegno degli Stati Uniti, in particolare di Biden, ad entrare in guerra se la Cina dovesse fare ciò che ha detto per decenni che farà e che gli Stati Uniti hanno tacitamente accettato, vale a dire, lentamente, osmoticamente, assorbire Taiwan nella terraferma. Ma la Cina ha ora ricevuto il messaggio bellicoso della marina americana. Il 6 maggio, 18 jet dell’aviazione dell’Esercito di Liberazione del Popolo hanno ronzato sopra Taiwan.

Circa una volta al mese una nave della marina statunitense transita nello Stretto di Taiwan. È successo di nuovo solo la scorsa settimana. Il 10 maggio la USS Port Royal ha manovrato in queste acque agitate, dimostrando che, indipendentemente dal numero di jet dell’aviazione cinese con cui contrasta, gli Stati Uniti continueranno a inviare le loro navi in luoghi che non gli appartengono. Gli Stati Uniti hanno un talento per creare situazioni disgustose e poi, come ha detto lo storico John Mearsheimer della catastrofe che è stata provocata tra Russia e Ucraina, Washington si rifiuta di riconsiderare la propria orribile politica, ed anzi raddoppia. Abbiamo visto dove ci ha portato il raddoppio in Iraq e in Afghanistan, ma sta’ sicuro, non abbiamo certo appreso la lezione.

Anche i senatori Bob Menendez e Lindsay Graham, falchi anti-cinesi, si sono dedicati a peggiorare la situazione, andando a Taiwan a metà aprile per incoraggiare l’isola a opporsi alla Cina. Anche il viaggio programmato, e poi annullato, dalla leader della Camera Nancy Pelosi non ha aiutato: tutti questi faccendieri del Congresso stanno spingendo Taiwan a un’imprudenza catastrofica. Perché in ogni caso, questo è un invito al suicidio di massa. È solo una questione di quanto grande sarà la massa. Due sono i casi: o i travet politici statunitensi spingono Taiwan a dichiararsi una nazione indipendente, provocando così l’invasione militare cinese, e poi, come spesso accade, gli sbruffoni statunitensi infrangono le loro promesse e non fanno nulla, lasciando Taiwan nella tempesta o, quel che è peggio, mantengono le loro solenni promesse, e abbiamo un’esplosione del conflitto tra Pechino dotata di armi nucleari e Washington dotata di armi nucleari, un orrore tale che anche un bambino di quarta elementare ne può comprendere la portata. In effetti, un bambino di nove anni vede, in media, molto più avanti di molti membri del congresso, che stanno percorrendo un sentiero di incitamento all’Armageddon atomico. Anche gli idioti della Casa Bianca percorrono quella strada. Credo questa sia una primavera odorosa.

Come ha pontificato al Congresso il segretario di Stato Antony Blinken: “Quando si tratta della stessa Taiwan, siamo determinati ad assicurarci che disponga di tutti i mezzi necessari per difendersi da qualsiasi potenziale aggressione, compresa l’azione unilaterale della Cina per interrompere lo status quo che è in vigore da molti decenni”. Oh, oh, ancora! Come ha twittato il commentatore Arnaud Bertrand: “L’ironia è che armare Taiwan fino ai denti È una grave interruzione dello ‘status quo in vigore da molti decenni'”. Tale status quo è la politica One China, una sola Cina, che postula che Taiwan faccia parte della Cina. Dagli anni di Nixon, che furono un periodo di relativa sanità mentale rispetto a Pechino, gli Stati Uniti lo hanno accettato. Blinken avvolge la storia in un pretzel per giustificare il nuovo incitamento, l’aggressione degli Stati Uniti e, in modo molto redditizio per gli Stati Uniti, l’affondamento dell’isola sotto una mastodontica montagna di armi.

Nel frattempo, l’amministrazione Biden fa di tutto per offendere la Cina. Il 28 aprile, Washington ha invitato un funzionario taiwanese a un evento di 60 nazioni sul futuro di Internet; quindi ora gli Stati Uniti riconoscono ufficialmente Taiwan come paese indipendente? Washington ha abbandonato il riconoscimento formale di Taiwan nel 1979; dobbiamo concludere che Biden sta cambiando questa politica? In questa conferenza le 60 nazioni hanno fatto varie promesse sulla tecnologia digitale e Internet. Taiwan doveva davvero partecipare? Ciò fa seguito a un disegno di legge approvato dalla Camera dei rappresentanti il ​​27 aprile, che ordina al dipartimento di stato di muoversi per promuovere lo status di osservatore per Taiwan presso l’Organizzazione mondiale della sanità. A dicembre, Taiwan è stata invitata al vertice sulla democrazia organizzato dall’amministrazione Biden.

Poi, a coronamento di tutte queste balle di promozione di Taiwan, che Pechino sicuramente considera con amarezza altrettante provocazioni, l’8 maggio il dipartimento di Stato ha riscritto la parte del proprio sito web che si occupa del territorio. E in questa occasione ha posto termine al riconoscimento dell’isola come parte della Cina continentale. È scomparso anche l’affermazione che gli Stati Uniti non supportano l’indipendenza di Taiwan. Vedete in che direzione si sta andando? Ad incoraggiare e acclimatare il mondo a trattare Taiwan come una nazione indipendente, per meglio radunare una coalizione di volonterosi quando Taiwan commetterà l’errore fatale di dichiararsi tale, e la Cina reagirà a ciò che senza dubbio considera come aperta ribellione da parte di un territorio che da tempo ha definito una provincia rinnegata.

Non sarebbe meglio che gli Stati Uniti tentassero l’approccio a cui hanno arrogantemente storto il naso con la Russia, vale a dire il negoziato? O schierassero dei diplomatici, membri di una specie in via di estinzione, attualmente quasi estinta per quello che riguarda Washington e Mosca? Invece di lanciare contro la Cina minacce e insulti, i governanti statunitensi potrebbero prendere in considerazione l’idea di sedersi con le loro controparti a Pechino e cercare di escogitare benefici e protezioni per Taiwan, mentre si avvicina alla reintegrazione con la terraferma. Ma ciò presuppone che i governanti di Washington siano persone rispettabili, un’illusione da cui il loro comportamento nei confronti dell’Ucraina e della Russia avrebbe dovuto disingannare per sempre tutti gli osservatori.

Quindi no. Biden e i suoi simili hanno un pubblico domestico da abbindolare, il che significa irritarsi usando la guerra per distrarre dai prezzi alle stelle, e poter così sognare di vincere le elezioni; e come hanno dimostrato questi politici nei confronti della Russia, pur di restare in piedi tenendosi stretto il loro bottino qui a casa, sono disposti a sfidare ogni volta il buon senso, anche se questo significa flirtare con l’annientamento atomico. Anche se questo significa bruciare le opportunità per scongiurare o porre fine a una guerra. Anche a costo di prolungare attivamente e perfidamente una guerra. Quindi l’impero statunitense continua nella sua folle ricerca di lanciare Taiwan come una nazione indipendente in erba all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, gettando così le basi per il tipo di blitz di propaganda che attualmente bombarda la Russia, fornito dai nostri media compiacenti e completamente isterici. Chi ripensa ora alle richieste scritte di garanzie di sicurezza di Mosca, nel frastuono di terribili accuse di crimini di guerra e davanti al vero orrore della guerra? Allo stesso modo, l’obiettivo attuale è rimuovere dalla mente del pubblico il fatto che per la maggior parte del mondo Taiwan non è una nazione indipendente.

Solo 13 paesi, per la maggior parte piccole isole caraibiche o nazioni centroamericane storicamente di destra, riconoscono Taiwan come paese sovrano. L’ONU considera l’isola un territorio, non un paese. Ciò presenta difficoltà per i guerrafondai al Congresso degli Stati Uniti e alla Casa Bianca, o almeno così era una volta. Ora, a quanto pare, l’atmosfera è: “Oh, e piantala! Armiamo Taiwan e andiamo in guerra se la Cina fa una mossa”. Questa follia flirta con l’inverno nucleare, ma a quanto pare i nostri depravati idioti del Congresso pensano che far morire di fame miliardi di persone non sia un prezzo troppo alto da far pagare per resistere al nemico asiatico numero uno, che solo fino a poco tempo fa era un amico e un rispettato partner commerciale degli Stati Uniti, ed ora è demonizzato come una minaccia comunista per fare il lavaggio del cervello agli americani timorati di Dio.

Nonostante il vergognosamente viscido, pernicioso e stolto “pivot to Asia” di Obama, le vendite di armi degli Stati Uniti a Taiwan non sono cresciute davvero fino a quando Trump non ha preso la palla al balzo per lanciare il suo “provochiamo la Cina”. Quindi, negli ultimi anni, Washington ha venduto a Taiwan miliardi di dollari di armi. All’inizio di aprile, gli Stati Uniti hanno approvato un accordo missilistico Patriot del valore di 95 milioni di dollari. La Cina ha protestato. Sorpresa! Le sue lamentele sono cadute nel vuoto.

Sempre desideroso di preparare qualsiasi confezione politica capace di seminare morte, il pezzo grosso della squadra di Trump Mike Pompeo ha chiesto, a marzo, il riconoscimento diplomatico di Taiwan come paese sovrano. Dopo aver armato i taiwanesi in modo indiscriminato, quella sarebbe la ciliegina sulla torta avvelenata. Ma non pensiate certo che Washington si limiti a Taiwan nel suo confronto con la Cina. Oh, no. Come mostra la rissa sulle Isole Salomone, gli Stati Uniti hanno progetti grandi, molto grandi: intendono contrastare la Cina a livello globale.

“La sfacciata minaccia alle Isole Salomone da parte degli Stati Uniti ne mette in mostra l’egemonia e il bullismo”, titolava un articolo del Global Times il 24 aprile. Ecco come Pechino considera Washington. E la saggezza comune dice che non c’è niente di peggio di un potere egemone insicuro. Infatti, ovunque l’occhio imperiale volge il suo sguardo arrogante e meticoloso, vede pericoli, trappole, umiliazioni. La Cina ha conquistato avamposti economici in tutto il mondo, come parte della sua Belt and Road Initiative. Washington intende attaccare Pechino per tutto questo? Staremo a vedere, perché anche se sarebbe una battaglia persa per gli Stati Uniti, come abbiamo visto troppo spesso negli ultimi decenni dal Vietnam all’Afghanistan all’Iraq, ciò non significa che questo non sia nei piani di Washington.

Le sanzioni di Biden contro l’Afghanistan fanno morire di fame un popolo: è un genocidio, di Eve Ottenberg (Counterpunch)

A dicembre il Programma alimentare mondiale ha scoperto che il 98% degli afgani non ha abbastanza da mangiare”. La carestia afghana ha un preciso colpevole: “La decisione degli Stati Uniti di fermare gli aiuti al Paese e congelare miliardi di fondi del governo afghano”.

Un nostro lettore e amico ci ha segnalato questo articolo di Counterpunch accompagnando la sua segnalazione con le seguenti parole di commento: “una infamia, oltre il per-niente-credibile o immaginabile. Le guerre degli Stati Uniti – niente di simile nella storia del mondo. Una città posta sulla collina, è questo che li rende così speciali: le guerre”.

Come dargli torto? Questa vigorosa denuncia morale e politica delle spietate sanzioni che l’amministrazione Biden ha imposto al popolo afghano merita di essere conosciuta. Può contenere qualche illusione su Russia, Cina o Onu, è vero (illusione che noi non condividiamo); ma la sua indiscutibile forza è nel prendere di mira il proprio governo, il proprio stato, il proprio imperialismo, e non fargli sconti di alcun tipo. E proprio mentre i decibel della retorica di guerra statunitense contro il “macellaio Putin” assordano il mondo.

Di nostro aggiungiamo solo che il “nostro” capitalismo non ha mai fatto mancare l’appoggio alle memorabili “imprese” belliche statunitensi, né all’arma strangolatoria delle sanzioni. In questo caso la prima fondamentale forma di complicità è l’assoluto silenzio dei media. (red.)

Quando l’11 febbraio gli Stati Uniti hanno rubato 7 miliardi di dollari dall’Afghanistan, non si è trattato di un semplice crimine di rapina. È stato un crimine di guerra e un crimine contro l’umanità che condanna forse milioni di afghani alla fame. In breve, un preludio al genocidio. Biden compie una prevaricazione per giustificare questo vero e proprio furto di fondi afghani chiamando in causa il risarcimento per le vittime dell’11 settembre. Il governo afghano non ha ucciso i loro cari; anzi nel 2001 i talebani si sono offerti di consegnare i colpevoli di al Qaeda a Washington. Gli Stati Uniti hanno rifiutato la loro offerta e hanno invaso il paese.

Questa azione scioccante di Biden rende tutti gli americani complici di atrocità disgustose. Secondo l’UNICEF, “più di 23 milioni di afghani affrontano una fame acuta, e 9 milioni tra essi sono quasi affamati”. L’ONU stima che entro la metà di quest’anno, il 97% degli afghani sarà in povertà. Affermare che queste persone hanno bisogno di ogni centesimo dei loro 7 miliardi di dollari è un eufemismo. Sostenere che coloro che ne rubano la metà sono dei mostri, è l’unica valutazione morale che si può fare per un tale furto. (L’altra metà sarà presumibilmente restituita loro in una data futura non specificata.) Biden ha fatto meglio dei rapinatori delle autostrade: “I tuoi soldi e la tua vita”, è questo il nuovo messaggio americano, consegnato con toni squillanti di mendace ipocrisia.

Questa particolare rapina equivale a circa il 40% dell’economia afghana e a circa 14 mesi di importazioni afghane, secondo Mark Weisbrot (Sacramento Bee, 4 febbraio). Ma in precedenza Biden aveva inflitto altre sanzioni al paese, come regalo d’addio quando le truppe statunitensi se ne sono finalmente andate dopo 20 anni di distruzioni. Nel complesso, le sanzioni di Biden significano: “nel prossimo anno moriranno più persone … di quante ne sono morte in 20 anni di guerra“, ha scritto Mark Weisbrot su CounterPunch del 15 marzo. Questo perché le gratuite sanzioni di Biden colpiscono a morte le risorse finanziarie del governo afghano insieme ai soldi per le importazioni di cibo di cui gli afghani hanno un disperato bisogno. Quindi, tra la guerra pluridecennale degli Stati Uniti a questa povera nazione, la siccità, il covid e il congelamento delle riserve valutarie – congelate dall’amministrazione Biden, tanto per essere chiari –, non c’è da meravigliarsi se milioni di afghani poveri sono sospesi sull’abisso della fame.

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