
Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo testo di Dante Lepore sulla “questione ecologica”, una delle grandi questioni mondiali del nostro tempo, largamente dimenticata nel dibattito in corso.
Certo, non mancano le grida di allarme. Di recente, ad esempio, G. Monbiot ha richiamato l’attenzione sull’Insectageddon – la catastrofica diminuzione degli insetti; altri scienziati hanno messo in primo piano il surriscaldamento globale; altre denunce ancora si concentrano sulla penuria (e lo spreco crescente) di acqua. Ma anche gli ecologisti più seri restano imprigionati in visioni parziali, che non arrivano ad afferrare la causa profonda, sistemica, delle minacce alla stessa sopravvivenza della specie, che è costituita dal modo di produzione capitalistico, e dalle sue implacabili, immodificabili, cieche leggi di movimento.
Il contributo di Dante Lepore va, invece, proprio in questa direzione e mette capo alla necessità di dare una risposta di lotta radicale e globale ai poteri globali che esercitano la distruttiva dittatura del capitale sulle nostre vite e sulla vita della natura.
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1.Marxismo e rapporto capitalistico uomo-natura: gli effetti contro l’uomo
Una delle conseguenze più deleterie scatenate dal capitalismo a danno della natura nel suo insieme animale e vegetale e della sua parte più evoluta e cosciente, l’uomo, sta nell’aver accelerato al massimo, nei ritmi e nel livello quantitativo, la scissione e il saccheggio di entrambi, con riflessi, da alcuni decenni, sull’intero ecosistema (dal greco, oikos significa ambiente), seminando ovunque dove prima c’era unità, comunità, uguaglianza, ogni genere di opposizione, differenza, dominio di alcuni su altri, diseguaglianza economica. L’uso capitalistico della merce terra coltivabile è lo stesso di quello della merce forza-lavoro: la «valorizzazione», la capitalizzazione, sia essa finanziaria o industriale, che non serve più a soddisfare né il complesso di bisogni dell’uomo, né il suo ambiente naturale, ma a depredarli entrambi. La caratteristica peculiare del processo di accumulazione, della necessità di elevare il saggio di plusvalore e di profitto che tende storicamente a calare, il suo dinamismo (perché il capitalismo è essenzialmente quantità e velocità!), portano inevitabilmente alla separazione dell’elemento culturale e dell’artefice-uomo dalla natura, che da Marx è chiamata il corpo inorganico dell’uomo. Il risultato non può essere che la crisi, la diseguaglianza, l’anarchia o il caos.
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Questa caratteristica del funzionamento del capitalismo è connaturata con esso e insopprimibile, ciò significa che, riducendo la quantità e la velocità nella produzione di merci etc., non si supera il capitalismo né lo si rende più umano e rispettoso sia dell’uomo che della natura, non si risolvono i problemi ecologici generati dal capitalismo, rendendolo meno selvaggio e aggressivo, come vorrebbero le ideologie della decrescita più o meno «felice» (S. Latouche, M. Pallante): «fruire di meno beni, consumare meno merci, e soprattutto meno energia e meno territorio». Marx individuò nel lavoro umano, in quanto rapporto dell’uomo con la natura, quello che chiamò il «ricambio organico» o «metabolismo» generale della natura. Ora, alcuni ecologisti e climatologi, come James Hansen, teorizzano l’avvento dell’era «Antropocene», nella quale la specie uomo è divenuta una forza geologica, soprattutto a partire dalla rivoluzione industriale e soprattutto dall’uso intensivo delle risorse energetiche fossili, un uso che modifica profondamente e velocemente l’habitat, mettendo in crisi l’eco-sistema, in contrasto con i ritmi relativamente più lenti anche delle precedenti fasi di urbanizzazione. E fu proprio J. R. Mc Culloch, discepolo di Ricardo,che rilevò come l’invenzione della macchina a vapore avesse lo scopo disollevare dall’incombenza di costruire fabbriche lungo il corso dei fiumi per sfruttare la forza delle cascate naturali dove prima sorgevano le fabbriche lontano dai centri abitati. Da allora il capitalismo ha introdotto la rottura più radicale col passato, che alcuni cominciano definire come «capitalocene» in quanto non solo trasformazione dei rapporti sociali ma anche alterazione del rapporto tra l’umanità e la natura. La separazione tra città e campagna è cresciuta, e la concentrazione della popolazione in nuove, e sempre più grandi, aree urbane ha determinato l’adozione di nuove tecnologie e metodi di lavoro. I combustibili fossili sono diventati la forma dominante di energia, consentendo al capitale di sfruttare ulteriormente la forza-lavoro.
La crisi ecologica prima del XXI secolo non è mai stata un qualcosa di inevitabile. La natura non è dunque un Altro da noi, il nostro “al di là”, e non è soltanto il luogo del nostro insediamento, il nostro habitat, in definitiva il pianeta terra, come lo considerano gli ecologisti, anche quelli più critici e consapevoli. Soltanto il marxismo, in quanto materialismo e in quanto dialettico, non cesserà mai di battere il chiodo su questa elementare constatazione: che la natura siamo anche noi esseri umani e non c’è vulnus inflitto alla natura che non sia un vulnus inflitto alla specie umana. Ciò era evidente a Marx nel rapporto tra città e campagna, allorché la rivoluzione industriale produsse la prima devastante deforestazione d’Europa per il carbone, rapporto città-campagna giunto oggi, quando l’energia da fonti fossili si è spostata sul petrolio, al punto in cui solo alcuni anni fa la popolazione urbana ha superato quella rurale a livello mondiale, con conseguenze sulle masse contadine espropriate e trasferite solo in parte nelle periferie e negli slums delle sempre più mostruose megalopoli, non poche delle quali hanno rapidamente superato la soglia dei 10 milioni di abitanti e anche più. Marx lo vedeva in prospettiva già nel Capitale: «Con la produzione sempre crescente della popolazione urbana che la produzione capitalistica accumula in grandi centri, essa accumula da un lato la forza motrice storica della società, dall’altro turba il ricambio organico fra uomo e terra, ossia il ritorno alla terra degli elementi costitutivi della terra consumati dall’uomo sotto forma di mezzi alimentari e di vestiario, turba dunque l’eterna condizione naturale di una durevole fertilità del suolo». E ne faceva un primo bilancio in termini di saccheggio e distruzione: «La scoperta delle terre aurifere e argentifere in America, lo sterminio e la riduzione in schiavitù della popolazione aborigena, seppellita nelle miniere, l’incipiente conquista e saccheggio delle Indie Orientali, la trasformazione dell’Africa in una riserva di caccia commerciale delle pelli nere, sono i segni che contraddistinguono l’aurora dell’era della produzione capitalistica. Questi procedimenti idillici sono momenti fondamentali dell’accumulazione originaria».
All’inizio del XX secolo[1], c’erano al mondo solo 16 città (la maggior parte delle quali nei paesi sviluppati) con 1 milione o più di abitanti e solo 4 lo superavano (Londra, Parigi, Berlino, New York). Oggi le città con questo numero di residenti sono circa 400 e circa 3/4 di queste si trovano nei cosiddetti Paesi in via di sviluppo, in cui si stima che almeno 1 abitante urbano su 4 viva in assoluta «povertà». Questa povertà è chiaramente visibile in tutte le principali città: inquinamento, quartieri sovraffollati, alloggi inadeguati, un insufficiente accesso all’acqua pulita potabile, ai servizi igienici e ad altri servizi sociali e fame, sempre più fame. Per darne un’idea, nel 2015, secondo la polizia di Delhi (metropoli di 16 milioni nel 2015), sono stati raccolti dalle strade cittadine tremila cadaveri di senzatetto. Fra meno di una decina d’anni, le metropoli di Giacarta, Dacca, Karachi, Shanghai, Bombay conteranno ciascuna venticinque o più milioni di abitanti. Ancora nel 1950, la popolazione urbanizzata dell’intero pianeta era di 736 milioni e 796 mila persone, ma qui comincia l’accelerazione. Negli anni ’60 veniva superato il miliardo e nel 1970 un miliardo 331 milioni e 783 mila. Nel 2000 si raggiunse la cifra di 2 miliardi 274.554. Nel 2005 la popolazione delle città era di 3 miliardi 164.635.
[1] Da qui in avanti, salvo altra fonte, i dati per lo più di fonte ONU, sono in D. Lepore, Gemeinwesen o Gemeinshaft. Decadenza del capitalismo e regressione sociale, Torino, 2011, pp. 14 e sgg.
Le previsioni, sempre secondo l’ONU, darebbero: