Ieri Belgrado, oggi Kiev. Il fatto decisivo, il dovere assoluto. parla Dušan Popović (italiano – English)

Ecco una splendida testimonianza di internazionalismo proletario rivoluzionario. Per le battaglie del presente c’è tanto da imparare dal passato!

Belgrado allora, Kiev adesso

“Per noi era chiaro che, per quanto riguardava il conflitto tra Serbia e Austria-Ungheria, il nostro Paese era ovviamente in una posizione difensiva. La Serbia difende la sua vita e la sua indipendenza, che l’Austria minacciava costantemente anche prima dell’assassinio di Sarajevo. E se la socialdemocrazia aveva il diritto legittimo di votare per la guerra ovunque, allora certamente lo era soprattutto in Serbia. Tuttavia, per noi, il fatto decisivo era che la guerra tra Serbia e Austria era solo una piccola parte di una totalità, solo il prologo della guerra universale, europea, e quest’ultima – ne eravamo profondamente convinti – non poteva non avere un carattere imperialista chiaramente pronunciato. Di conseguenza, noi, essendo parte della grande Internazionale socialista e proletaria, abbiamo ritenuto nostro dovere assoluto opporci risolutamente alla guerra”.

Dušan Popović, 1915 – militante fin da giovane età del Partito social-democratico serbo, di cui divenne in seguito segretario, si schierò contro i crediti di guerra pretesi dalla monarchia Karađorđević

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Contro il “difesismo”, per il disfattismo rivoluzionario nelle guerre imperialiste. Parla Amadeo Bordiga

Nel mezzo del crescente rumore di grandi guerre inter-capitalistiche in arrivo (o in preparazione) ben al di là dell’Ucraina, è inevitabile il confronto con il passato, in particolare con le due guerre mondiali alle nostre spalle. Ed altrettanto inevitabile il ritorno in campo degli argomenti portati a giustificazione delle nuove guerre inter-capitalistiche in preparazione. Tra questi spicca, negli ambienti militanti “rosso”-bruni, dichiarati o dissimulati (i peggiori), il tema del “difesismo”. La Russia “difende” il suo diritto ad esistere, messo in discussione dall’asse imperialista euro-atlantico, la Cina “difende”, sempre dagli attacchi dello stesso asse, il suo sforzo per risalire la “catena del valore”, l’Iran difende il suo diritto a difendersi dalle manovre occidentali che sicuramente stanno dietro gli scioperi operai (avete mai visto uno sciopero operaio che non fosse comandato da Washington?) e le lotte delle donne (idem), e così via.

In questa orgia di “difesismi” ci è successo di veder chiamato in causa perfino Amadeo Bordiga, degradato al rango di un qualsiasi personaggetto anti-yankee di Visione Tv. E benché non siamo “bordighisti”, la cosa ci ha fatto girare le scatole. Per cui ci è venuto in mente di pubblicare questo suo testo che ribadisce con mirabile chiarezza di esempi storici qual è il criterio con cui i comunisti rivoluzionari, da Marx a Engels a Lenin a Liebknecht, hanno classificato le guerre del passato distinguendo quelle progressive da quelle reazionarie – il “criterio sociale della natura e funzione di classe di ogni singola guerra – e quanto sia spesso ingannevole il richiamo al “difesismo”.

Davanti alle guerre capitalistiche che hanno per oggetto la spartizione del mercato mondiale, o di parti di esso, com’è la attuale guerra in Ucraina, la posizione dei comunisti non può che essere quella del disfattismo rivoluzionario – da più di un secolo. E’ evidente che in questo testo il ragionamento di Bordiga è circoscritto all’Europa, e non riguarda le guerre rivoluzionarie dei popoli delle colonie e delle semi-colonie che hanno cambiato il volto del mondo dal 1945 al 1976.

A noi pare incontestabile anche il suo inquadramento della seconda guerra mondiale, come guerra imperialista a tutti gli effetti, dalla quale è emerso non a caso lo strapotere dell’imperialismo “finanziario e termonucleare” a stelle e strisce, che ancora oggi, benché sempre più barcollante, continua a soffocare l’esistenza degli sfruttati di tutti i continenti, e minaccia di farne strage. Il limite della ricostruzione di Bordiga – presente anche nella formidabile serie di scritti raccolti in “Struttura economica e sociale della Russia d’oggi” – è il mancato interrogativo su dov’era il proletariato russo e internazionale, e sul perché si batté con tanto eroismo contro il nazi-fascismo in Spagna, a Varsavia, in Russia, in Jugoslavia, in Grecia, in Italia… illudendosi al contempo in modo crudele sul conto delle democrazie imperialiste “liberatrici”/”alleate”.

L’invito a leggere è rivolto in particolare ai più giovani compagni con i quali ci ritroviamo fianco a fianco nelle poche iniziative contro la guerra in Ucraina in corso in Italia su posizioni di coerente internazionalismo proletario. A loro rivolgiamo anche una domanda: come mai, istintivamente (un istinto sanissimo), il vostro richiamo va alla prima guerra mondiale e al disfattismo rivoluzionario, e non invece alla seconda e al “difesismo” con annesse alleanze con stati capitalistici e imperialisti? Eppure, chi affermasse oggi che i nuovi “nazi-fascisti globali” sono gli euro-atlantisti della NATO avrebbe le sue buone ragioni, altro che! (Red.)

P. S. – I corsivi sono nel testo originale, i neretti li abbiamo inseriti noi.

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Onta e menzogna del “difesismo”

Ieri

A detta dei mestieranti del riformismo e dei parlamentari da “programma minimo”, che guidavano le masse operaie europee al principio del secolo, i socialisti “non si occupavano di politica estera” e non avevano idee sul problema della guerra tra gli Stati. Naturalmente, fino a che la guerra non dominò la scena ed il campo, “erano contro tutte le guerre”, ed in merito non seppero dire di più del generico “pacifismo” quale era coltivato da borghesi o da anarchici.

Questo andazzo fu la degna premessa della politica di “appoggio a tutte le guerre” in cui rovinarono i principali partiti socialisti europei quando il ciclone del 1914 si scatenò. Allora i furfanti dell’opportunismo, divenuti alleati e ministri dei poteri imperiali borghesi, cominciarono a sofisticare e a barare sul fatto che il marxismo “non condannava tutte le guerre” ma alcune ne ammetteva: era naturalmente il caso della loro, di quella che a fautori ebbe in Germania Scheidemann & C., in Francia Guesde & C., in Austria Renner & C., in Belgio Vandervelde & C., in Russia Plechanov & C., in Gran Bretagna Macdonald & C., in Italia Mussolini &… nessuno.

Lenin, collo stesso ordine mentale e la stessa assenza di demagogia e di posa, lavora instancabile a rimettere le cose a posto, dal 1914 al 1917 nella più solitaria ombra, dal 1917 in poi nella abbagliante luce.

Prima preoccupazione del grande rivoluzionario è quella di ricollegare solidamente la trattazione del problema alle basi della dottrina e della politica socialista, ai suoi testi come ai suoi precedenti di battaglia.

La continuità del “filo” è la prima preoccupazione di Lenin. Egli stesso, che fu il più grande studioso della “più recente fase del capitalismo” nel suo svolgersi economico e sociale verso le forme imperiali, dimostra sopra tutto che solo per i traditori si trattò di “inattese prospettive”, di “imprevedute situazioni” che suggerissero e autorizzassero “nuove analisi” e “nuovi metodi” del socialismo.

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“Il nemico principale si trova nel proprio paese” – due testi di Karl Liebknecht che sembrano scritti per noi

Mentre i due mammasantissima del militarismo atlantista Mattarella e Draghi martellano sull’assoluta necessità e bontà della guerra alla Russia, per la libertà dell’Italia e la difesa dei suoi “valori”, e da autocrati del capitale quali sono, ci invitano a fare tutti i sacrifici necessari per portare alla sua rovina la “nemica” Russia di Putin. Mentre lo stuolo dei loro pappagalletti in parlamento e nei media ci assorda con le sue invettive contro il “nemico esterno”. Mentre la feroce (e alquanto grottesca) discendente degli Junker prussiani von der Leyen, portavoce dell’industria bellica renana, gareggia con la sanguinaria premier britannica Truss nell’oltranzismo anti-russo rispolverando ogni giorno di più temi e toni della propaganda nazista. Mentre anche presunti personaggi “anti-sistema” vanno girando la penisola per chiedere il voto in nome di una Italia o più europea, o più sovrana, o più neutrale e “pacifista”, purché al di sopra di tutto ci sia sempre lei, la patria, l’Italia capitalista e imperialista (che fu la patria del fascismo e si prepara ad incoronare una lontana discendente del fascismo repubblichino). Noi internazionalisti rivoluzionari, che malediciamo la guerra in Ucraina e i suoi protagonisti – la NATO e la macchina bellica italiana per primi, e la Russia che l’ha avviata, in tutto e per tutto corresponsabile della tragedia in atto; noi che siamo stati da subito contro le sanzioni alla Russia, contro l’invio di armi al governo fantoccio di Zelensky, contro la demente campagna russofobica in atto; noi che abbiamo come patria il mondo intero; invitiamo i nostri lettori a rileggere, o leggere per la prima volta, due interventi di un grande internazionalista rivoluzionario tedesco di nascita, Karl Liebknecht. Sono testi del secondo anno della prima guerra mondiale (il 1915) che operano un totale rovesciamento di ottica, e insegnano come fare a pezzi le retoriche di guerra dei capitalisti fino a stagliare in piena luce il principio-guida dei proletari coscienti di sé: “il nemico principale si trova nel proprio paese”. Un esempio entrato nella storia di autentico anti-militarismo rivoluzionario.

Per intanto leggete, in coda alcune brevi note di commento. (Red.)

Il nemico principale si trova nel proprio paese

Maggio 1915 – Testo di un volantino

Ciò che da dieci mesi, dall’aggressione dell’Austria alla Serbia, era da attendersi giorno per giorno, è avvenuto: siamo alla guerra con l’Italia.

Le masse popolari dei paesi belligeranti hanno incominciato ad affrancarsi dalla rete delle menzogne ufficiali. Anche nel popolo tedesco si è diffusa l’esigenza di capire le cause e gli obiettivi della guerra mondiale, la diretta responsabilità del suo scoppio. Sempre più si è attenuato il falso credo nei sacri obiettivi bellici, è scomparso l’entusiasmo per la guerra, è poderosamente aumentata la volontà di una pace sollecita: ovunque, persino nell’esercito!

Una grave preoccupazione per gli imperialisti tedeschi e austriaci, che vanamente si guardavano intorno alla ricerca della salvezza. Sembra che ora essa sia giunta. L’ingresso dell’Italia in guerra dovrebbe offrire loro l’auspicata occasione per scatenare un nuovo vortice di odio tra i popoli, per soffocare la volontà di pace, per cancellare le tracce della propria colpa. Essi speculano sulla debole memoria del popolo tedesco, sulla sua sin troppo provata pazienza.

Se il bel piano dovesse avere successo, verrebbero annullati dieci mesi di sanguinosa esperienza, ancora una volta il proletariato internazionale sarebbe qui, disarmato, totalmente escluso quale fattore politico autonomo.

Il piano deve fallire in quanto la parte del proletariato tedesco rimasta fedele al socialismo internazionale si mantenga memore e degna, in questa terribile ora, della sua missione storica.

I nemici del popolo fanno affidamento sulla debole memoria delle masse: a questa speculazione noi contrapponiamo la parola d’ordine:

Imparare tutto, non dimenticare nulla!

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Un 25 aprile senza tricolori, né retorica resistenziale. Testi da Napoli e da Bologna

Napoli, 25 aprile

Prima di venire con alcune nostre considerazioni sul 25 aprile, pubblichiamo qui di seguito, tra i materiali che ci sono pervenuti, due testi provenienti entrambi da ambienti proletari: il primo dal Movimento di lotta per il lavoro 7 novembre di Napoli, il secondo di un operaio metalmeccanico di Bologna iscritto al SI Cobas, con una militanza internazionalista alle spalle.

Senza stare ad analizzare, da pedanti, parola per parola e frase per frase i due testi, ciò che li distingue dalla quasi totalità delle prese di posizione e dei discorsi sentiti ieri è il sentimento di classe, l’ottica di classe, la prospettiva di classe che li pervade. Nei devastanti uragani in arrivo, per non essere squadernati e dispersi come fuscelli, servirà l’ancoraggio ferreo a questi chiodi ben infissi nella roccia. (Red.)

Dal Movimento di lotta per il lavoro 7 novembre (Napoli)

Ognuno interpreta la storia passata alla luce dei propri desideri e delle proprie speranze. E la data del 25 aprile ha assunto e assume un significato tale da superare, nella coscienza collettiva, la realtà di quell’evento e di quel momento storico.

E allora ben venga la festa, purché sia chiaro che si festeggia quello che poteva essere e non fu. Quello che sarebbe stato e non è stato. L’aspirazione verso la futura rivoluzione sociale, non la rituale ricorrenza di una rivoluzione politica che riaffermò, con equilibri mutati, il potere di una borghesia che è fascista o democratica, monarchica o repubblicana, a seconda delle esigenze del momento.

Non fu la vittoria, nemmeno una vittoria mutilata, fu una sconfitta. La sconfitta del proletariato rivoluzionario che aveva pagato il prezzo più alto negli anni della dittatura mussoliniana, che era stato mandato a morire in una guerra fra briganti, decimato dai bombardamenti, dalla fame, dalle malattie. Che aveva combattuto sulle montagne la SUA guerra di liberazione. Per non morire. Per non cedere alla barbarie di un mondo che crollava e che – quei proletari – li voleva condannati al ruolo di vittime sacrificali.

Quel mondo, il mondo dei rapaci “costruttori di odio” al servizio dei propri interessi economici, era pronto a usare anche la loro voglia di riscatto, i loro sogni, le loro speranze. Perfino ad armarli pur di averli alleati nella sua lotta mortale per la sopravvivenza.

Armarli di mitra e bombe a mano, purché fossero disarmati politicamente e ideologicamente. La borghesia ha una tradizione nell’uso del proletariato come massa di manovra al suo servizio. Lo ha fatto quando si è liberata dei retaggi feudali, lo ha continuato a fare nelle sue innumerevoli lotte “nazionali” per liberarsi dal giogo di quell’imperialismo che al momento la soffocava.

Funziona sempre così. Senza autonomia, senza scendere, subito, sul terreno della lotta di classe, senza porre sul campo la questione del potere operaio e dell’espropriazione dei capitalisti (compresi quelli nazionali “antimperialisti”), si finisce con essere massa di manovra usa e getta, truppe sacrificabili di una guerra i cui generali hanno già deciso compiti e limiti.

E le “resistenze”, le rivoluzioni nazionali, le lotte di popolo, finiscono SEMPRE per essere tappe, non di un fantomatico processo rivoluzionario, ma momenti di riequilibrio del potere della borghesia.

Al proletariato tocca la sorte poco invidiabile di mano d’opera a buon mercato, prima nella guerra di liberazione dove sui morti partigiani i nuovi padroni, liberatisi in fretta delle camice nere, ricostruirono il LORO Stato, poi nella ricostruzione post bellica dove, deposto il fucile, fu di nuovo facile massacrarli nella quotidiana guerra del profitto contro il lavoro.

Non poteva andare diversamente. L’orizzonte di quello che fu il Partito Comunista, che ha rappresentato l’ossatura di quella resistenza, era già da tempo limitato alla conquista di un compromesso accettabile sotto l’ombrello dell’imperialismo vincitore. La conquista della “democrazia” che avrebbe rese sostenibili le pretese del capitale e spuntate le pretese della classe operaia di costruire una società di liberi e di uguali.

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