Egitto, al-Sadis min Uktubir (السادس من أكتوبر‎): dieci giorni di sciopero alla Universal for Electrical Appliances, tre operai arrestati

Traduciamo da Mada Masr un articolo di Beesan Kassab sul lungo sciopero contro il mancato pagamento dei salari di duemila operai della fabbrica di elettrodomestici Universal for Electrical Appliances, situata nella municipalità egiziana 6 Ottobre (al-Sādis min Uktūbir) nel governatorato di Giza, a poco più di 20 km a sud-ovest del Cairo.

L’articolo è scarno, ma consente di cogliere il clima di terrore che c’è in Egitto dentro e fuori le fabbriche : gli operai intervistati parlano solo a condizione di restare anonimi; l’unica a non avere problemi nel denunciare l’accaduto è la giovane Shaima, figlia di uno dei tre operai arrestati, Mahmoud Haridy. L’esperienza del mancato, o ritardato, pagamento dei salari è frequente nei paesi dominati del Sud del mondo, come lo è l’esistenza di salari al di sotto delle necessità di sopravvivenza, ciò che obbliga tanti operai a prolungare l’orario di lavoro a rischio di sfinimento, infortuni o addirittura, come in questo caso, della morte. Infine, la polizia e le “forze di sicurezza” onnipresenti, pronte a colpire e a comportamenti arbitrari che ledono i diritti più elementari (in questo caso, il diritto a portare con sé dei farmaci indispensabili).

L’Italia e l’Occidente hanno a lungo preteso di voler portare “la democrazia e il rispetto dei diritti fondamentali” nel mondo arabo; vi hanno portato in realtà guerra e distruzioni, proteggendo sistematicamente i locali regimi di asserviti, in Egitto ieri il regime di Mubarak, oggi quello di al-Sisi. Sta agli internazionalisti e ai proletari più coscienti non permettere che sulle condizioni e sulla coraggiosa resistenza dei nostri fratelli e sorelle di classe egiziani e di tutto il mondo arabo cada il silenzio.

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All’alba di martedì [28 settembre], le forze di sicurezza hanno arrestato nelle loro case tre lavoratori della Universal for Electrical Appliances , mentre lo sciopero dei lavoratori per il ritardo nel pagamento dei salari continuava per il decimo giorno.

I pagamenti dei salari dei lavoratori non sono stati erogati da luglio, e questa è la seconda crisi da mancato pagamento dei salari che ha provocato scioperi in azienda dal 2019. All’inizio di questo mese, 2.000 lavoratori hanno iniziato un sit-in presso la sede dell’azienda nella zona industriale della “Città del 6 ottobre” per esigere il pagamento degli arretrati.

Hassan Mabrouk, direttore generale della società, ha dichiarato a Mada Masr che la società ha subìto un forte calo delle vendite a causa del crollo della quotazione della valuta egiziana nel 2016, da cui deve ancora riprendersi. Ha detto che la direzione aveva pagato ai lavoratori i salari di luglio in tre rate negli ultimi giorni, mentre i salari di agosto sarebbero stati erogati in due tranche tra una settimana e 10 giorni da oggi, e i salari di settembre in due pagamenti dal 5 ottobre. Ha detto anche che il salario inizierà ad essere erogato normalmente dopo ottobre.

Ma un lavoratore che ha parlato con Mada Masr ha dichiarato che domenica la direzione ha pagato meno della metà delle quote dei lavoratori dovute per il mese di luglio.

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Helwan, Egitto: la protesta degli operai della Egyptian Iron and Steel Company

Riprendiamo da Mada Masr, una testata egiziana indipendente, questo articolo. La protesta operaia di cui si parla – e di cui abbiamo già parlato mesi fa – copre i primi mesi di questo anno, fino al 30 maggio, è una lotta contro la chiusura di una delle acciaierie storiche di questo paese, la cui fondazione risale agli anni del nasserismo e al suo programma di rendere il paese indipendente quanto all’industria pesante (e tessile). Una lotta sconfitta perché anche l’ultimo forno dell’acciaieria è stato improvvisamente chiuso da pochi giorni, senza preavviso, per colpire la resistenza delle maestranze e del loro organismo sindacale.

Questa vicenda mette in luce come stia procedendo a tappe forzate il processo di smantellamento di gran parte di quella storica industria di stato a favore di un processo di privatizzazione della produzione industriale che molto spesso equivale alla svendita al capitale straniero. Negli anni di Sisi, infatti, sono stati introdotti forti incentivi a favore degli investimenti esteri accompagnati da “solide misure macroeconomiche” (per dirla con l’ambasciatore d’Egitto in Italia, Hisham Badr). Su questa ristrutturazione sempre più extra-vertita si sono tuffati a pesce i piranha italiani (padroni di grandi e piccole imprese) investendo nell’estrazione di petrolio, gas, metalli rari, ferrovie, porti, industria del cuoio e degli arredamenti, etc., facendo del capitalismo italiano il primo investitore nel paese (per un totale di 27.7 miliardi di dollari).

Mentre procede lo smantellamento del “vecchio” proletariato industriale, che diede filo da torcere al regime di Mubarak e ai suoi protettori proprio, tra l’altro, ad Helwan, nasce un nuovo e più giovane proletariato industriale ancor più direttamente “connesso” al capitalismo globale, di cui sentiremo parlare. Il pugno di ferro del generale tanto caro all’Italia, all’UE e alla Russia non avrà il potere di soffocare l’antagonismo di classe a tempo indeterminato.

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Dieci lavoratori dell’Egyptian Iron and Steel Company sono stati detenuti per due ore domenica (30 maggio) dopo che le forze di sicurezza hanno disperso 500 lavoratori che hanno manifestato al cancello principale dell’azienda, ha detto a Mada Masr un membro del comitato sindacale dell’azienda a condizione di anonimato.

Le proteste dei lavoratori sono arrivate mentre lo storico colosso industriale del settore statale si avvicinava di un passo alla liquidazione, con lo spegnimento dell’ultimo impianto in funzione presso l’azienda; domenica è stato annunciato che sarebbe stata fissata una riunione per iniziare il processo di liquidazione il giorno successivo, 31 maggio.

Sono ancora in corso le trattative tra lo Stato e il comitato sindacale dell’azienda sul pacchetto di fine rapporto per la forza lavoro dell’azienda composta da circa 7.500 lavoratori, e sono in gioco mensilità, indennità di fine servizio e indennità di assicurazione sanitaria per i lavoratori.

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Sosteniamo la lotta degli operai egiziani contro i piani di al-Sisi (MENA Solidarity Network)

Nonostante la brutale repressione di ogni dissenso messa in atto dal macellaio al-Sisi, strettissimo amico del governo e dello stato italiano, a dieci anni dalla intifada che ha percorso l’Egitto e buona parte del mondo arabo, i lavoratori sono ancora in lotta. La mobilitazione degli oltre 7000 operai dell’acciaieria di Helwan, un centro industriale a sud del Cairo, è la risposta al tentativo di smantellamento delle industrie di stato a favore delle industrie private e a quelle di proprietà dell’esercito, nelle cui mani è tutt’ora la gestione di una parte consistente dell’economia egiziana.

Il pretesto per la chiusura del grande impianto siderurgico è lo stato fallimentare e le grandi perdite accumulate, che gli operai attribuiscono alla pessima gestione della produzione e dell’impianto stesso. La protesta è rimasta totalmente pacifica, sebbene un numero enorme di forze di sicurezza sia stato schierato subito dopo il lancio del sit-in, per impedire agli abitanti del centro siderurgico di unirsi ai manifestanti. “Non ce ne andremo, Hisham se ne andrà”, è uno degli slogan della protesta (il riferimento è al ministro delle imprese pubbliche); e “non lo lasceremo fare ai ladri”, un atto di accusa contro coloro che deliberatamente hanno provocato il fallimento dell’azienda che lo stato vuole mettere in vendita.

La lotta dei lavoratori, che ha suscitato un’ampia solidarietà, prosegue nonostante le offerte di forti indennizzi ai lavoratori da parte dello stato, purché accettino di sciogliere il sit.in. L’offerta è stata rifiutata all’unanimità, anzi i lavoratori hanno mantenuto aperti i forni, per dimostrare che la produzione è tuttora attiva e non, come sostiene il ministero, ferma da tempo. L’articolo che pubblichiamo, riprendendolo da MENA Solidarity Network, richiama la storia del tentativo di dotare l’Egitto di un’industria di stato operata da Nasser, un piano che fu messo in atto in parallelo con la stroncatura di ogni protesta operaia e la creazione dei sindacati di stato, quei sindacati la cui funzione fu smascherata definitivamente proprio in occasione della grande insorgenza proletaria e popolare del 2011, preparata a sua volta da un’ondata di scioperi operai. La repressione in atto non è in grado certo di annullare le condizioni di estrema miseria in cui versa gran parte della popolazione; permangono quindi i presupposti che preparano altre insorgenze, altre lotte, che ci auguriamo vadano al di là del mondo arabo che è tuttora in grande fermento.

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English version: https://menasolidaritynetwork.com/2021/03/07/we-will-not-leave-it-to-the-thieves-egyptian-steel-workers-battle-for-justice-after-plant-slated-for-closure/

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“Non lo lasceremo ai ladri!” I lavoratori siderurgici egiziani combattono per la giustizia dopo la chiusura dell’impianto

I lavoratori della Iron and Steel Company di Helwan, ai margini meridionali del Grande Cairo, hanno trascorso il decimo anniversario della rivoluzione egiziana del 25 gennaio organizzando una massiccia manifestazione nella loro fabbrica. Tuttavia, la loro marcia di migliaia di persone non è stata né una celebrazione della rivolta popolare che ha spodestato il presidente Hosni Mubarak nel 2011, né una riaffermazione del ruolo della classe operaia nel processo rivoluzionario. Infatti, i lavoratori della Iron and Steel difendevano la fonte di sostentamento per loro e per le loro famiglie, protestando contro la liquidazione dell’intera fabbrica decretata da un’assemblea generale straordinaria l’11 gennaio. Temendo la chiusura definitiva della fabbrica creata 67 anni fa, i circa 7.300 lavoratori dello stabilimento hanno iniziato ad agitarsi e alla fine hanno proclamato un sit-in permanente sul posto il 17 gennaio.

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L’Intifada araba è ripartita. Sostegno incondizionato alle piazze in rivolta!

Non sono le pallottole ad uccidere, è il silenzio.”

(Muhammad Taha)

Pochissimi se ne sono accorti, specie alla sinistra radicale indaffarata a rincorrere le chiappe del duo Salvini-Meloni frignando sul Mes e a prepararsi a nuovi flop elettorali, ma sulla sponda sud del Mediterraneo e in Medio Oriente è ripartita l’Intifada araba, e alla grande. Nell’ultimo biennio le piazze di alcune capitali e di molte città arabe si sono riempite, a seconda dei casi, di decine, centinaia di migliaia, milioni di dimostranti intenzionati/e a battersi contro i rispettivi regimi. A farlo, nonostante lo spettro della tragedia siriana agitato minacciosamente davanti ai loro occhi da generali e despoti che sognano di emulare le gesta del mitico Assad.

Questa nostra presa di posizione, come Tendenza internazionalista rivoluzionaria, è un invito ai militanti di classe e ai proletari più coscienti a rompere il silenzio su questi grandi avvenimenti, che fanno il paio con quelli in corso nelle Americhe (Cile, Haiti, Colombia, Ecuador, Bolivia). E a far sentire in tutti i modi possibili la nostra solidarietà attiva, il nostro sostegno incondizionato, alle piazze arabe in rivolta. Specie ora che si moltiplicano i segni di manovre dei poteri costituiti, locali e globali, per cercare di avviare una devastante deriva di tipo siriano e innescare nuove guerre.

Le sollevazioni del 2011-2012 e l’offensiva controrivoluzionaria

Per inquadrare in modo adeguato gli avvenimenti in corso in Algeria, Sudan, Iraq, Libano, paesi arabi di cruciale importanza politica, e le loro ricadute in Iran, sarebbe necessario un ampio e molto dettagliato sguardo all’indietro. E sarebbe necessario, naturalmente, fare il punto sull’evoluzione sempre più caotica e centrifuga della situazione economica e politica mondiale. Ma lo scopo di questo nostro testo è solo quello di gettare un sasso nello stagno. Lasciamo quindi sullo sfondo il contesto internazionale, e ci limitiamo a fare alcune considerazioni sugli immediati antecedenti dei grandi scontri di classe del 2018-2019: la lotta anti-coloniale degli anni ’50 e ’60 del secolo scorso e le forti sollevazioni popolari e proletarie che andarono a comporre l’Intifada degli anni 2011-2012 – il sommovimento che ha dato avvio al secondo tempo della rivoluzione democratica e anti-imperialista nel mondo arabo con la parola d’ordine Ash’ab iurid isquat al-nizam, “il popolo vuole abbattere il regime!”.

Perché parliamo di “secondo tempo”? Continua a leggere L’Intifada araba è ripartita. Sostegno incondizionato alle piazze in rivolta!

Egitto: la protesta popolare torna nelle piazze

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Workers in Cairo holding a banner that reads, “Our unions = our freedom, it is not an investment.” (Reuters/Amr Abdallah Dalsh)

Nel luglio 2013 l’avvento al potere del generale al-Sisi sembrava mettere la parola fine, a tempo indeterminato, sull’Intifada egiziana. Un’ondata repressiva senza precedenti azzerava con un massacro le grandi manifestazioni di piazza, centinaia, se non migliaia di militanti costretti al silenzio, incarcerati, torturati, il quadro dirigente dei Fratelli mussulmani in carcere o in esilio, il movimento operaio apparentemente paralizzato. L’Egitto ritornava sui suoi abituali binari di paese amico dell’Occidente e totalmente dipendente dai prestiti del FMI, l’ultimo, in via di contrattazione, di 12 miliardi di dollari. Il generalissimo omaggiato, in sequenza, dal duo Mattarella-Renzi, da Putin e da Trump, a conferma fotografica di quella “santa alleanza” reazionaria da Obama/Trump fino ad Assad/Khamenei/Putin passando per Sisi e i monarchi del Golfo, che da soli (o quasi) denunciamo da anni come l’alleanza assassina delle grandi sollevazioni arabe del 2011-2012.

Dopo quattro anni, ecco gli effetti della politica di perenni sacrifici imposta dal governo: con una popolazione in crescita del 2,5% l’anno, che ha raggiunto i 92 milioni di abitanti, il livello di povertà (ufficiale) e’ al 35%, l’inflazione al 24,3%, il pound egiziano viene continuamente svalutato, il potere d’acquisto dei già miseri salari e’ crollato, con un aumento dei prezzi dei beni di prima necessità (le spese per l’energia elettrica delle famiglie più povere, ad esempio, sono cresciute del 167%), cui si aggiungono i tagli ai sussidi per il carburante ed una drastica riduzione del numero delle famiglie che hanno diritto al pane “di stato”, alimento base per le famiglie più povere.

L’articolo che pubblichiamo – lo riprendiamo da Middle East Research and Information (per la versione in francese vd. A l’encontre) – testimonia dell’ennesima forma di resistenza messa in atto da un vasto movimento popolare, la campagna “vogliamo vivere”, che raccoglie numerose associazioni, gruppi politici, sindacati di base. Le manifestazioni, i blocchi stradali, i sit-in davanti agli uffici amministrativi hanno visto come protagoniste le donne, e si sono estesi in tutto l’Egitto, da Alessandria alle regioni povere del sud del paese. Queste proteste si affiancano agli scioperi operai che dal 2014 sono ripresi, nonostante la loro criminalizzazione che ha portato molti lavoratori in carcere e davanti ai tribunali militari. La normalizzazione dell’Egitto si sta rivelando sempre più una chimera, per Sisi e i suoi ‘alti protettori’ internazionali e di area. Essa assomiglia sempre più ad una bomba pronta ad esplodere … non vediamo l’ora!

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On the Breadline in Sisi’s Egypt

by Neil Ketchley, Thoraya El-Rayyes | published March 29, 2017

On March 6, 2017, hundreds of local residents took to the streets of towns and cities in Upper Egypt and the Nile Delta after the Ministry of Supply cut their daily ration of subsidized baladi bread. By the following day, thousands were protesting in 17 districts across the country. In Alexandria, protestors blockaded a main road at the entrance of a major port for over four hours, while residents in the working class Giza suburb of Imbaba blocked the airport road. Elsewhere, women in the Nile Delta city of Dissuq staged a noisy sit-in on the tracks of the local train station, where they chanted, “One, two, where is the bread?” and called for the overthrow of President Abdel Fattah El-Sisi’s government. [1] It was not long before the Arabic hashtag #Supply_Intifada was trending on Egyptian Twitter. In a bid to curtail further mobilization, Egypt’s military-backed government scrambled to restore residents’ access to bread, and promised to increase the ration in areas that had seen protest.

Food Protests
Egypt’s latest round of food protests comes amidst ongoing price shocks resulting from the flotation of the Egyptian pound in November 2016. The devaluation of the pound is part of a series of measures, which include spending cuts and the introduction of a value added tax, demanded by the International Monetary Fund (IMF) in exchange for a 12 billion dollar loan to prop up Egypt’s failing economy. [2] By February 2017, food inflation reached 42 percent. [3] Key staple goods have been particularly affected: Over the past year, Egyptians have seen the cost of bread and cooking oil go up by nearly 60 percent. [4] To put this into perspective, in the year leading up to the 2011 Arab Spring, food prices in Egypt were subject to an annual increase of around 15 percent. [5] Citing these and comparable developments, scholars have argued that grievances arising from food insecurity were a key factor in the outbreak of the 25th January Egyptian Revolution. [6]

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There is historical precedent here. In Egypt, the price of bread has been seen as a potentially explosive issue since the 1977 “Bread Intifada”—when then President Anwar Sadat’s pledge to end subsidies on several basic foodstuffs sparked unruly protests across the country, which were met with harsh repression. Within two days, the state had reversed course, pledging to leave the subsidy system intact. Elsewhere in the region, attempts to cut state subsidies have suffered a similar fate: In recent years, austerity measures have been thwarted by street-level mobilization in Morocco, Tunisia, Jordan, Yemen and Mauritania. [7] Fast forward to 2017 and the contours of future contestation in Egypt may now be taking shape, as soaring inflation is coupled with high levels of unemployment. [8] Indeed, if grievance led explanations for the timing of the 2011 Arab Spring are correct, then the scope conditions for another mass uprising are seemingly in place. Continua a leggere Egitto: la protesta popolare torna nelle piazze