Grecia. Con l’abolizione della giornata di 8 ore si torna all’Ottocento, di A. Ntavanellos

Dopo l’Austria (nel luglio 2018) e l’Ungheria (nel novembre 2018) anche la Grecia stravolge la propria legislazione in materia di orario di lavoro, cancellando il riferimento alle 8 ore e alle 5 giornate lavorative per settimana come orario normale di lavoro. I meno giovani tra noi denunciano la tendenza strutturale all’allungamento degli orari di lavoro, nelle loro molteplici dimensioni (giornaliera, settimanale, mensile, annuale, sull’arco della vita) da almeno tre decenni – una tendenza che si accoppia alle forme di precarizzazioni più estrema dei rapporti di lavoro, arrivati da tempo a molteplici forme di lavoro pressoché totalmente gratuito. Da qualche anno, in Occidente, siamo entrati nella fase delle modifiche legali (non semplicemente di fatto) degli orari di lavoro nel senso del loro prolungamento. In tutto ciò l’UE ha svolto la sua parte, e come! E Antonis Ntavanellos non manca di sottolinearlo, nel suo articolo, che riprendiamo dal sito Alencontre

“Benvenuti nel XIX secolo!” Così Efimerida ton Syntakton (“Il giornale dei redattori”, quotidiano rivolto a un pubblico democratico e di sinistra) ha commentato l’approvazione da parte del Parlamento del mostruoso disegno di legge del ministro del Lavoro, Kostis Chatzidakis, presentato come una “riforma” dei rapporti di lavoro che consentirà alla Grecia di cogliere le “opportunità” di crescita, dopo la crisi del 2020 e la pandemia.

Il titolo del quotidiano era legittimo. La nuova legge abolisce la giornata lavorativa di 8 ore e la settimana di 5 giorni. Elimina l’obbligo per gli imprenditori di pagare salari maggiorati quando richiedono lavoro straordinario, che vada oltre le 8 ore e i 5 giorni. Invece di una paga extra, la legge promette che gli imprenditori concederanno in seguito giorni di ferie compensativi. Probabilmente durante i periodi di scarsa domanda per i prodotti o i servizi forniti dall’azienda. Questo “accordo sull’orario di lavoro” flessibile è stato introdotto per la prima volta nel diritto del lavoro dai socialdemocratici, durante il periodo di degenerazione neoliberista dei loro partiti e sindacati. Inizialmente, all’inizio degli anni ’90, è stato implementato in settori marginali [In Tessaglia e Macedonia occidentale, i settori in crisi sono stati soggetti a questa forma di flessibilità, ma il risultato è stato un fallimento, data la Costituzione] e doveva rimanere un elemento marginale e secondario delle relazioni industriali in Grecia. Oggi il governo di Kyriakos Mitsotakis generalizza questo “accordo” estremamente liberista, estendendolo all’intera classe operaia. In base alla nuova legge, è ora legale per i lavoratori dell’industria (il cui lavoro è duro e penoso) lavorare 150 ore in più all’anno senza alcuna retribuzione aggiuntiva!

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1° Maggio. I lavoratori in lotta in tutto il mondo sfidano Covid-19 e repressione

Riprendiamo qui il Comunicato del SI Cobas sul 1° maggio nel mondo. Ci sarebbe molto da ragionare sulla polarizzazione sociale e politica in atto in particolare negli Stati Uniti che a noi sembra anticipare gli sviluppi prevedibili anche in altri paesi dell’Occidente. E, per altro verso, sullo svolgimento dello scontro di classe nei paesi arabi e in Medio Oriente , là dove i fatti libanesi sembrano anticipare l’inevitabile ripresa dello scontro di classe in Algeria, in Iraq, in Iran, in Sudan e a seguire. Torneremo su questi temi, perché anche se domina tuttora il disinteresse verso gli svolgimenti internazionali della lotta di classe, anche se va di moda l’insipida ‘sapienza’ geo-politica ‘di sinistra’, da questi svolgimenti dipende molto della nostra sorte.

Photos: Workers Across The World Mark May Day, Even During Coronavirus

La doppia crisi, sanitaria ed economico-sociale causata dalla pandemia da COVID-19, ha sottoposto i lavoratori e le lavoratrici di tutto il mondo agli stessi problemi: difendersi dal contagio e rischio della vita per sé e i propri familiari mentre si è costretti a lavorare, difendersi da impoverimento e fame per chi è rimasto disoccupato a causa della chiusura di attività.

Il Primo Maggio, la giornata internazionale di lotta dei lavoratori, ha colto i lavoratori di ogni paese e le organizzazioni sindacali nella condizione di non poter tenere le tradizionali manifestazioni; in gran parte dei paesi i governi, prendendo a pretesto la prevenzione del contagio, non hanno permesso di tenere neppure piccole manifestazioni nel rispetto delle misure di distanziamento sociale e con le mascherine.

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Fermiamo la corsa alla guerra

Quando i lavoratori di una azienda tessile del Veneto hanno ricevuto l’ordine di sostituire con urgenza le etichette “Made in Turkey” ai jeans da esportare in Russia, nessuno aveva pensato all’aereo russo abbattuto pochi giorni prima nei cieli siriani dall’esercito turco, o alla tensione crescente tra gli eserciti di mezzo mondo per accaparrarsi un pezzo della Siria.

Nessuno aveva pensato alla guerra, alle quotidiane stragi meccaniche, alle bombe lanciate sulle case e sui luoghi di lavoro, alle carneficine di milioni di uomini, donne e bambini in Medio Oriente. Così come non molti hanno pensato alle decennali guerre scatenate dall’Occidente nei quattro angoli del globo quando hanno visto arrivare nelle loro città centinaia e migliaia di profughi. Alla guerra non si riesce a pensare neanche quando si sentono rombare i motori dei caccia, carichi di morte, partiti dalle basi militari dietro casa.

Alla guerra si è pensato solo quando a Parigi si è sparato nel mucchio. “Siamo in guerra”, ci hanno urlato i governanti – mandanti ed esecutori di altre decine di guerre. L’epica di Stato e la retorica degli alzabandiere vogliono coprire il sangue, lo sporco, la dinamite, le montagne di corpi smembrati, le vite spezzate, con la celebrazione delle bombe democratiche e la cancellazione della sanguinosa catena di orrori del passato, per arruolarci in nuove guerre.
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La resa di Syriza non chiude la “questione greca”

betrayal

La Grecia è scomparsa, o quasi, dalle prime pagine. È prevedibile ci tornerà dopo le elezioni del 20 settembre. Ma non saranno certo le imminenti elezioni, quale che sia il loro esito, a risolvere la “questione greca”. Le sue coordinate, infatti, sono extra-parlamentari. Attengono alla crisi del capitalismo e ai rapporti di forza tra le classi. E sono già chiare da anni. Le vicende del referendum e del dopo-referendum, con la resa di Tsipras e di Syriza ai diktat della Troika e dei capitalisti greci, le hanno ulteriormente confermate. Perché dicono che nonostante la catena di lotte degli scorsi anni, e nonostante il rifiuto dei memorandum sia stato ribadito dalla vittoria del No al referendum del 5 luglio, per i lavoratori e i giovani deprivilegiati della Grecia la strada è ancora tutta in salita. Come lo è, del resto, per i proletari dell’intera Europa (e del mondo).

Qui in Italia diversi esponenti della extra-sinistra hanno tratto spunto dalle grandi difficoltà attuali del movimento di massa anti-memorandum, per spargere a piene mani disfattismo nei confronti della lotta dei lavoratori, in Grecia e ovunque, e per rilanciare un nazionalismo ‘sociale’, un social-nazionalismo, funesto per le sorti del proletariato. Abbiamo scritto queste note in polemica con loro, ma non certo per convincere loro. Il nostro intento è, invece, quello di promuovere il confronto, finora deficitario, tra quanti ricercano una via d’uscita dalla profonda crisi ideologica, politica e organizzativa in cui versa il movimento proletario su scala europea e internazionale senza nulla concedere al riformismo e al nazionalismo.

Il ‘caso greco’ e la resa di Syriza hanno dimostrato una volta di più che l’illusione di poter uscire da questa crisi a mezzo di elezioni e con il rilancio di politiche riformistiche, produce solo nuovi disastri, con l’effetto di rafforzare i sentimenti di sfiducia e rassegnazione già così largamente presenti tra i lavoratori. Discutere di questa resa può e deve servire a schizzare un percorso per la rinascita del movimento di classe (nel suo insieme) che non sia fondato sulle sabbie mobili. Lo scontro di classe in Grecia, infatti, non è qualcosa di a sé stante: è parte integrante dello scontro di classe in corso in Italia e a scala internazionale, e anticipa per molti versi ciò che sta per avvenire qui e in altri paesi dell’Europa. Tanto più ora che la crisi globale irrisolta sta tornando a riacutizzarsi con nuovo epicentro in Cina. Nell’attuale stato di nullità politica della classe lavoratrice, in cui la prospettiva rivoluzionaria del comunismo vive solo in piccoli aggregati di compagni scarsamente comunicanti tra loro, tracciare un cammino e formulare alcune indicazioni di lotta coerenti con l’obiettivo finale della rivoluzione sociale, è compito maledettamente difficile.

Ma proviamo comunque a porre qualche interrogativo relativo agli avvenimenti greci degli ultimi mesi: per ragionare di Grecia, ma anche della situazione italiana e di tutto il resto.

Procederemo formulando, appunto, tre domande:
1) Perché, dopo il referendum, Troika e capitalisti greci hanno stretto ulteriormente il nodo intorno alla gola dei proletari greci?
2) Perché Tsipras e Syriza hanno ceduto di schianto?
3) Cosa ne seguirà per Syriza e il conflitto di classe in Grecia, e qui da noi?
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Grecia. Facciamo arrivare la nostra solidarietà ai lavoratori e ai compagni della Grecia, contro l’internazionale del capitale, dell’usura e del terrore

Greece 2.7.2015
 
E dunque: i molti passi indietro fatti dal governo Tsipras rispetto alle posizioni di partenza non sono bastati a raggiungere un compromesso, fosse pure un compromesso al ribasso, con la Trojka. La gang FMI-BCE-Commissione europea non voleva il compromesso, bensì la resa totale con la sottoscrizione di un diktat perfino più pesante, se possibile, dei vecchi memorandum.

Poiché non ci piace la demagogia (neppure quella di estrema sinistra), dobbiamo dire che, a suo modo, il governo Tsipras – pur accettando la clausola capestro fondamentale dell’attivo di bilancio crescente (dall’1,5% al 3,5%) per gli anni fino al 2022 – aveva cercato di ridistribuire un po’ i pesantissimi sacrifici messi in preventivo, con un incremento di tasse sulle grandi imprese, sulla pubblicità, sulle licenze televisive e i beni di lusso. Le “istituzioni”, ovvero le istituzioni del capitale globale, dell’usura e del terrore, precisiamo noi, non ne hanno voluto sapere. Niente incremento delle tasse sui capitalisti e su quelli che possono vivere nel lusso; bisogna colpire solo e soltanto dall’altra parte: pensionati, lavoratori, disoccupati, giovani nati senza camicia, poveri, così imparano che lottare contro i comandi dei “mercati” e affidarsi ad un governo, in qualche modo, di sinistra non paga, anzi è controproducente.

Le ragioni per cui la Trojka è stata così inflessibile con Atene da alzare di continuo la posta e costringere Tsipras a “rompere” sono diverse e concatenate, e rispondono anche ad interessi discordanti tra loro, perché nella Trojka non c’è solo l’Europa, c’è anche – e quanto pesa! – il grande fratello/nemico che agisce da Wall Street e dal Pentagono.
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