Il petrolchimico di Mahshahr nella provincia del Khuzestan, a sud-ovest di Teheran
Ritorniamo sugli scioperi operai degli ultimi mesi in Iran traducendo un articolo postato il 25 agosto su MERIP (Middle East Report and Information Project), uno dei siti sul Medio Oriente più attendibili. Lo facciamo per l’importanza che ha avuto ed avrà il proletariato dell’Iran nello sviluppo dello scontro di classe in Medio Oriente e a livello internazionale.
L’articolo conferma in pieno, con una ricchezza di elementi di fatto, che in Iran – anche per effetto delle odiose sanzioni statunitensi e dell’irruzione della pandemia da covid 19 – gli antagonismi sociali si stanno acutizzando con un epicentro che nell’ultimo decennio è sempre più spostato verso il cuore del proletariato industriale (inclusa l’industria dei trasporti).
Il testo di Mohammad Ali Kadivar, Peyman Jafari, Mehdi Hoseini e Saber Khani ha un che di flemma “accademica”, vi si avverte un certo distacco dagli avvenimenti. Ma è ricco di notizie e di valutazioni sobrie, utili a comprendere le tendenze in atto. In particolare, mostra bene l’abilità di manovra delle autorità della repubblica islamica che abbinano alla repressione le operazioni necessarie a tenere divise le lotte, isolando il settore più sfruttato, esposto e combattivo della classe, cercando di cooptare quello più protetto e stabile, e di riattivare istituzioni “operaie” (i cosiddetti consigli islamici) già da tempo disattivate, per imbrigliare e far arenare ciò che più temono: la ripresa di un’attività autonoma del proletariato industriale.
Questa ripresa parte necessariamente dalle tematiche concernenti le condizioni di lavoro e la libertà di organizzazione, e procede – visti i precedenti – con un misto di prudenza e di fermezza nel mantenere il punto, soprattutto quando si tratta di difendere la propria auto-organizzazione: “La cosa più importante [di questo giro di lotte] è che abbiamo sperimentato il nostro grande potere come lavoratori, e questo ci mette in una posizione più forte per portare avanti le nostre richieste. In particolare, siamo riusciti a formare un consiglio organizzativo perché sia il vero rappresentante dei lavoratori”. Avanti così! – quale che sia l’esito immediato di questi mesi di lotte.
Il 19 giugno 2021, il giorno successivo alle elezioni presidenziali nella Repubblica islamica dell’Iran, è iniziata un’ondata di scioperi tra i lavoratori nel settore petrolifero, del gas e nell’industria petrolchimica dell’Iran, con richieste di aumenti salariali, stabilità del posto di lavoro e migliori condizioni di sicurezza e salute.
Nei primi giorni le notizie sulle elezioni hanno distolto l’attenzione dagli scioperi, ma quando l’ondata di scioperi si è estesa a nuove regioni e a nuove raffinerie petrolifere e petrolchimiche, una serie di gruppi sociali e politici ha iniziato a prestarvi attenzione. Gli scioperi, in ragione della loro dimensione, diffusione geografica e relativa forza organizzativa, hanno acquisito una valenza politica. Inoltre, le loro vertenze e rivendicazioni hanno preso piede presso ampi strati della popolazione attiva e stanno facendo rivivere i ricordi politici legati al ruolo dei lavoratori del petrolio negli eventi storici della rivoluzione iraniana del 1978-1979. Ma, cosa, ancora più importante, la portata dei recenti scioperi petroliferi (anche se inferiore alle proteste del gennaio 2018 e del novembre 2019 scaturite da una mobilitazione spontanea legata ad una questione di carattere nazionale), è stata facilitata dal loro coordinamento a livello nazionale.
Una immagine delle recenti proteste in Khuzestan per la mancanza di acqua
Nell’ormai abituale alternanza tra “riformatori” e “conservatori”, si installa in questi giorni ai vertici della “repubblica islamica”, Ebrahim Raisi. Lo fa grazie al sostegno di Khamenei e all’appoggio della ricca e potentissima Bonyad-e Emam Reza di Mashad, una delle Fondazioni parastatali con le più estese proprietà terriere e il maggior numero di dipendenti. Questo cambio della guardia al vertice avviene proprio mentre l’Iran è attraversato da un’ondata di lotte operaie e proteste sociali non meno ampia e duratura di quelle esplose contro il carovita nel novembre 2019 in 21 città, che costarono ai dimostranti molte centinaia di morti (secondo alcune fonti furono addirittura 1.500) e migliaia di arresti.
Abbiamo già presentato queste lotte qualche settimana fa in un piccolo dossier. Ci ritorniamo ora con questo aggiornamento di Frieda Afary perché ci sembra necessario infrangere, per quel po’ che possiamo, il muro di silenzio che la stampa del “nostro” regime da un lato, e lo squallido posizionamento campista, esplicito o implicito, di larga parte dell'”estrema sinistra” dall’altro, stendono intorno ad esse, in particolare intorno alle lotte operaie.
Ci torniamo perché per noi la gigantesca sollevazione rivoluzionaria che mandò in frantumi nel 1979 il regime dello Scià, uno dei bastioni – insieme con lo stato di Israele e la monarchia saudita – della dominazione imperialista occidentale sul proletariato e le masse sfruttate del Medio Oriente, ha posto il movimento proletario dell’Iran in una posizione di speciale rilievo internazionale, corrispondente per altro verso alla grande vicenda storica e alla collocazione strategica di quel paese.
Ci torniamo perché per noi, a differenza di certi sedicenti “comunisti” che disonorano il comunismo, fin dal primo giorno la “repubblica islamica” di Khomeini e Khamenei è stata, ad onta dell’abile demagogia sui mostazafin (gli oppressi) di cui si è adornata, un brutale apparato capitalistico di oppressione sul proletariato, gli sfruttati, la massa delle donne senza privilegi e le minoranze nazionali, curde e arabe anzitutto. E tale è rimasta nei quattro decenni della sua esistenza, quali che siano stati i suoi scontri, le sue frizioni, i suoi accordi aperti o sottobanco con gli Stati Uniti (intorno al nucleare o in Iraq); frizioni, scontri e accordi che non hanno mai riguardato la tutela delle condizione di esistenza e, tanto meno, la sorte delle masse sfruttate e oppresse dell’Iran e della regione medio-orientale.
Nel corso degli anni ’80 questo apparato capitalistico di oppressione sterminò, o costrinse all’esilio e disperse ai quattro angoli del mondo, un promettente, coraggioso giovane movimento marxista (ci riferiamo all’Ucm e al Partito comunista d’Iran dei primi anni ’80, e la militanza rivoluzionaria non si esauriva allora con questi compagni), privando così la lotta del proletariato, e le proteste sociali che si sono susseguite negli ultimi tre decenni, della loro espressione politica più avanzata. Ma gli antagonismi sociali non sono certo scomparsi in Iran, e – anche per effetto delle odiose sanzioni statunitensi ed europee – si stanno riacutizzando con un epicentro che, nell’ultimo decennio, è sempre più spostato verso il cuore del proletariato industriale (inclusa l’industria dei trasporti).
Ricacciato all’indietro con la violenza più efferata, in cui proprio il nuovo presidente Raisi ha avuto una parte di spicco con la mattanza nelle carceri di migliaia di detenuti politici avvenuta nel 1988, e con la manipolazione e diversione di massa compiuta “in nome dell’islam”, il movimento proletario iraniano sta riprendendo, come può, dalle lotte immediate, e da prime, significative forme di solidarietà tra i lavoratori di differenti settori, e tra lotte operaie e movimenti sociali contro l’aumento dei prezzi, l’oppressione delle donne, la mancanza di acqua, la gestione fallimentare della pandemia del Covid.
Nel frattempo, la polarizzazione della ricchezza sociale non fa che crescere – come ammettono la stessa ala “populista” dell’establishment islamista, la Jaryan-e enherafi (corrente dei devianti) di M. Ahmadinejad, ed altre componenti dell’area degli Hezbollah.
Che si stia progressivamente scavando un solco tra il potere politico, economico, giudiziario islamista, in tutte le sue molteplici e variegate componenti, e una crescente massa di appartenenti al campo degli sfruttati, lo prova la stessa decrescente partecipazione al voto: ferma al 42% (la più bassa di sempre) nelle elezioni parlamentari dello scorso anno, e al 48,8% (la più bassa di sempre) nelle presidenziali di giugno.
Che le contraddizioni di classe e sociali si stiano facendo esplosive, l’ha ammesso lo stesso Raisi nel suo discorso di insediamento: “Da oggi, la mia amministrazione seguirà un programma urgente e a breve termine per rimuovere i dieci problemi più importanti del Paese, compresi quelli relativi alla carenza di budget, investimenti, inflazione, diffusione del coronavirus, carenza di acqua ed elettricità”. Non più di qualche giorno fa l’uscente ministro della sanità aveva fatto solenne appello all’aiuto dell’esercito per contrastare una ripresa dell’epidemia che appare fuori controllo (l’appello all’esercito accomuna la “cristiana” Italia e l'”islamico” Iran, a dimostrazione che le questioni sociali non hanno assolutamente nulla di religioso).
Le denunce come quella di Frieda Afary sono utili proprio perché permettono di portare a conoscenza di chi non si limita a guardare solo alla città o alla nazione in cui vive, lotte che sono costate e costano ai nostri fratelli e sorelle di classe iraniani grandi sacrifici, non di rado la stessa vita; lotte che ci riguardano più di quanto si possa credere.
Ciò detto, precisiamo che il nostro punto di vista differisce dal suo sotto diversi aspetti:
sebbene l’Iran non vada in alcun modo equiparato a Cuba quanto a consistenza della sua economia (quella iraniana è la diciottesima economia del mondo per Pil, la cubana è al posto 105), della sua demografia (83 milioni e passa di abitanti contro 11 milioni) e della sua struttura politico-militare (circa 1 milione di soldati a fronte di 50.000 scarsi); e sebbene negli ultimi due decenni la sua “economia di resistenza” e i suoi rapporti con la Cina e la Russia si siano fatti sempre più robusti e abbiano in larga parte controbilanciato le perdite di mercato ad ovest; le sanzioni statunitensi ed europee hanno il loro peso – e vanno denunciate con forza, preliminarmente, da chi nell’Occidente si trova ad agire. Anche Afary lo fa, sia chiaro, ma in maniera che ci sembra troppo collaterale.
E’ improprio parlare, per l’Iran, di imperialismo, dal momento che questo termine – nella nostra lingua, almeno – si riferisce alla capacità di competere, su date basi economico-finanziarie e militari (che l’Iran non ha), per la spartizione del mercato mondiale. L’Iran è, invece, una potenza capitalistica regionale con i suoi tentacoli in Iraq, in Libano, in Siria, in Yemen, in Afghanistan, come del resto ha apertamente rivendicato nell’ottobre 2020 il generale Safavi: “Il nostro potere è andato al di là del territorio iraniano e noi – da un potere nazionale – ci siamo trasformati in un potere regionale”.
Tutte le ‘singole’ denunce contenute in questo articolo sono fondate, e chi – come noi – si muove lungo la linea del “Che fare?” [“le denunce politiche di tutti gli aspetti della vita sociale sono la condizione necessaria e fondamentale dell’educazione dell’attività rivoluzionaria delle masse”], non può che sottoscriverle. Altra cosa, però, è mettere le espressioni della lotta di classe in Iran un po’ tutte sullo stesso piano – c’è una bella differenza tra le agitazioni studentesche del 1999 per la libertà di stampa (sostanzialmente limitate a Teheran); il quieto “movimento verde” del 2009, con una prevalente composizione di ceti medi, finalizzato a rimettere in discussione i risultati elettorali in diretto collegamento con i “riformatori” Mousavi e Kharrubi; le accese proteste degli strati sociali più deprivati contro la disoccupazione e l’inflazione del 2017-2018 che hanno coinvolto più di 70 città minori dell’Iran (con 25 morti e almeno 3700 arrestati) e sono stati i primi ad esprimere un rifiuto radicale dell’intero apparato di potere islamista; l’ancor più radicale esplosione del novembre 2019, nata contro il vertiginoso aumento del prezzo del carburante, e divenuta una protesta contro il governo e anche, per la prima volta, contro lo stesso Khamenei, con i dimostranti proletari e diseredati capaci di rispondere alla sanguinosa repressione statale con l’assalto a centinaia di banche (anche alla Banca centrale); ed infine il movimento di scioperi operai e le proteste popolari per la mancanza d’acqua attualmente in corso. Saremo pure gente del “secolo scorso”, fa niente, ma siamo certi che non ci si potrà liberare dalla macchina capitalistica di oppressione e di sfruttamento che si è data il nome di “repubblica islamica dell’Iran”, senza una ripresa in grande dell’attività rivoluzionaria del proletariato iraniano, e senza la riformazione (in essa) di un forte nucleo di marxisti rivoluzionari. Ed è esattamente per questa ragione, per la dinamica di dislocazione di questi scontri che sta avvicinandosi sempre più al cuore del proletariato iraniano, che torniamo a parlare di Iran.
Quanto, infine, al cinismo che la Afary coglie nei “progressisti” e nei “socialisti” occidentali che attribuiscono una funzione “anti-imperialista” all’Iran e mantengono la bocca cucita sulle lotte operaie e le proteste sociali in corso in quel paese per non disturbare i manovratori di Teheran, come darle torto? Ma tale cinismo è solo l’attitudine morale che corrisponde ad una totale mancanza di senso di classe. L’anti-americanismo che accomuna tutta questa gente non è altro che una forma di nazionalismo: gli va bene tutto ciò che attenua l’influenza di Wall Street e del Pentagono sulla “propria” nazione, sul “proprio” paese, cioè sul “proprio” capitalismo. Importa zero ciò che i capitalismi, gli stati e i governi anti-americani fanno ai “propri” proletari. Chi, con pretesi argomenti “anti-imperialisti”, sostiene in Occidente la “repubblica islamica”, è fuori dall’internazionalismo proletario. E ai compagni che si mantengono in rigoroso silenzio davanti a lotte come quelle in corso in Iran e in altri paesi di vero o presunto schieramento anti-americano, diciamo: sveglia! Voi da che parte state?
=======
L’Iran sta vivendo un’altra ondata di proteste e scioperi di massa perché i problemi economici, sociali, politici, ambientali e sanitari rendono impossibile alla grande maggioranza della popolazione disporre del minimo indispensabile per vivere.
Scioperi nel settore petrolchimico, proteste contro la mancanza di acqua
Il 15 luglio è iniziata una nuova ondata di proteste di massa per la grave carenza di acqua nella provincia a prevalenza etnica araba del Khuzestan. Le principali parole d’ordine dei manifestanti erano: “Abbasso la dittatura”, “Abbasso Khamenei”, “Non vogliamo una Repubblica Islamica”, “Il popolo vuole la caduta del regime”. Le forze di sicurezza del governo hanno sparato e ucciso almeno 8 manifestanti e ne hanno ferito e arrestati molti altri. Nonostante questo, sono iniziate proteste di solidarietà in Azerbaijan, Kurdistan, a Isfahan, nel Sistan, nel Baluchistan e a Teheran. Registi, insegnanti e gruppi di scrittori iraniani hanno firmato una dichiarazione congiunta a sostegno delle proteste. (https://iranwire.com/en/features/9985)
In una dichiarazione di solidarietà del sindacato dei lavoratori degli autobus di Teheran si afferma: “La mancanza di acqua oggi in Khuzestan è dovuta alle politiche incompetenti, rapaci e incentrate sul profitto dei precedenti decenni del capitalismo nell’estrazione del petrolio e nell’uso dell’acqua per l’industria dell’acciaio, i cui proventi non vanno alla popolazione. Queste politiche insaziabili hanno privato la popolazione del Khuzestan di acqua potabile. La distribuzione d’acqua viene sospesa per molte ore e fatta mancare per i bisogni primari. Anche gli agricoltori e gli allevatori sono stati danneggiati, perdendo i loro mezzi di sussistenza”.
Le ultime proteste seguono una serie di scioperi a livello nazionale dei lavoratori a contratto a tempo determinato nell’industria iraniana del petrolio e del gas, che è anche fortemente basata nel Khuzestan. Gli scioperi, che sono iniziati il 19 giugno e si sono estesi ad un centinaio di siti di produzione, chiedono contratti a tempo indeterminato, un salario mensile di circa 500 dollari, condizioni di lavoro sicure e il diritto di organizzarsi e di non essere sotto il controllo della polizia. I lavoratori della canna da zucchero di Haft Tapeh in sciopero nel Khuzestan chiedono anche la vaccinazione anti-COVID ed esprimono solidarietà con le proteste contro la mancanza d’acqua.
Crisi economica e pandemia di COVID
L’Iran continua a soffrire di una grave crisi economica causata dal costo dei suoi interventi imperialisti regionali in Siria, Iraq, Libano, Yemen, dai programmi nucleari e missilistici e dagli effetti delle sanzioni economiche statunitensi. Il salario minimo ufficiale è di circa 120 dollari al mese in un paese in cui il costo dei beni di prima necessità per una famiglia di 4 persone è di 500 dollari al mese. L’elettricità viene interrotta per diverse ore ogni giorno. L’accesso a internet sta diventando sempre più limitato o impossibile per molti a causa del costo e della repressione del governo.
Il Covid si sta diffondendo rapidamente nelle prigioni iraniane, che hanno una popolazione ufficiale di 190.000 detenuti. Anche le prigioniere donne soffrono e muoiono di Covid. Tra loro giornaliste, insegnanti, attiviste femministe e del lavoro, studentesse, ambientaliste, attiviste curde e arabe dei diritti civili, come pure donne Baha’i e Sufi.
Donne prigioniere e rifugiati afgani
Nasrin Sotoudeh, avvocato femminista per i diritti umani e difensore della “ragazze della via della rivoluzione” imprigionata, ha diversi problemi di salute oltre il Covid. Narges Mohammadi, attivista femminista contro la pena di morte, che è stata candidata al premio Nobel per la pace, è stata rilasciata l’anno scorso dopo una lunga pena detentiva, solo per essere di nuovo condannata al carcere e a 80 frustate per aver continuato ad opporsi alla pena di morte e “aver messo in pericolo la sicurezza nazionale”. Si è battuta contro questa sentenza e ha partecipato a manifestazioni di solidarietà con il popolo del Khuzestan, con i lavoratori in sciopero e con le famiglie dei prigionieri politici. In una recente intervista, ha definito le lotte delle donne iraniane “il tallone d’Achille del regime iraniano”. (https://www.facebook.com/voicesofwomenforchange/videos/241864884051720)
Sepideh Gholyan, attivista femminista del lavoro, incarcerata in Khuzestan, continua a scrivere sulla situazione delle donne prigioniere di etnia araba. È stata selvaggiamente picchiata in prigione e ora è in sciopero della fame.
Le persistenti ambizioni regionali dell’Iran e le “soluzioni” dell’imperialismo statunitense
In questo contesto di crisi e proteste, il governo iraniano prosegue i suoi interventi imperialisti regionali in Siria, Iraq e Libano. Sostiene le sue trame per rapire e assassinare gli attivisti dell’opposizione in esilio. (https://iranhumanrights.org/2021/07/foiled-kidnapping-of-dissident-part-of-irans-ramped-up-campaign-to-crush-dissent/) Continua a sviluppare i programmi nucleari e missilistici e ha interrotto il negoziato con l’amministrazione statunitense Biden sul ritorno all’accordo nucleare JCPOA.
L’editorialista statunitense del New York Times Thomas Friedman rivela tutta la sua disumanità imperialista nella sua recente rubrica sull’Iran dove offre una “soluzione” che è “il meglio che si possa sperare con l’Iran.” (https://www.nytimes.com/2021/06/15/opinion/iran-biden-nuclear-deal.html?searchResultPosition=1) Egli sostiene che gli Stati Uniti, con l’aiuto degli stati del Golfo, dovrebbero dare maggiori aiuti finanziari al regime di Assad per cacciare l’Iran dalla Siria, mantenere la Russia e la Turchia quali potenze dominanti e assicurare la continuazione del regime di Assad. Questo, secondo lui, ridurrebbe il pericolo iraniano e potrebbe soddisfare Stati Uniti e Israele. Per lui, i popoli della regione, gli arabi e i curdi siriani e la popolazione iraniana, sono semplici pedine sulla scacchiera imperialista statunitense e globale.
Necessaria solidarietà progressista con le lotte all’interno dell’Iran
Non meno cinici sono quella sinistra e i cosiddetti socialisti di tutto il mondo che sostengono il regime iraniano come “anti-imperialista” o si rifiutano di criticarlo.
Coloro che limitano la loro solidarietà a chiedere la revoca delle sanzioni statunitensi, rifiutano di riconoscere la complessità dei problemi in Iran. Non tengono conto del fatto che questi problemi sono riconducibili sia all’imperialismo estero di Stati Uniti, Russia, Cina, che al militarismo capitalista all’interno e al fondamentalismo religioso.
Qualsiasi volontà di impegnarsi offrendo solidarietà con le lotte in Iran comincia non solo con la richiesta di revoca delle sanzioni statunitensi e la fine degli attacchi di Israele, ma anche con il ritenere il regime iraniano responsabile della repressione e dello sfruttamento della popolazione e dell’ambiente della regione. Riconoscerlo significa chiedere l’immediato rilascio dei prigionieri politici, esprimere solidarietà con i lavoratori in sciopero, le lotte delle donne e per l’ambiente, con le minoranze etniche sessuali e religiose, e infine chiedere il ritiro dell’Iran da Siria e Irak e la fine degli interventi in Afghanistan, Libano e Yemen.
25 luglio 2021
Iranian Progressives.org 210725
Iran: A New Wave of Mass Protests and Strikes
Iran is experiencing another wave of mass protests and strikes as economic, social, political, environmental and health problems make it impossible for the large majority of the population to have the bare minimums needed to live.
Petrochemical Strikes, Protests Against Water Shortage
A new wave of mass protests over severe water shortage in the mainly ethnic Arab province of Khuseztan began on July 15. Protesters’ slogans have included: “Down with Dictatorship.”, “Down With Khamenei”, “We Don’t Want An Islamic Republic”, “The People Want the Regime to Fall.” Government security forces have shot and killed at least 8 protesters and injured and arrested many others. However, solidarity protests have started in Azarbaijan, Kurdistan, Isfahan, Sistan & Baluchistan and Tehran. Iranian filmmakers, teachers and writers’ groups have co-signed a joint statement in support of the protests. (https://iranwire.com/en/features/9985)
The latest protests have followed a series of nationwide strikes of temporary contract workers in Iran’s oil and gas industry which is also heavily based in Khuzestan. The strikes which began on June 19 and have spread to a hundred production sites, are demanding permanent employment status, a $500 monthly wage, safe working conditions and the right to organize and be free of police surveillance. Haft Tapeh sugar cane workers on strike in Khuzestan are also asking for COVID vaccination and expressing solidarity with protests against the lack of water.
Economic Crisis and COVID Pandemic
Iran continues to suffer from a massive economic crisis brought about by the costs of its regional imperialist interventions in Syria, Iraq, Lebanon, Yemen, its nuclear and missile programs and the effects of U.S. economic sanctions. The official minimum wage is approximately $120 per month in a country where the cost of bare necessities for a family of 4 is $500 per month. Electricity is shut off for several hours on a daily basis. Access to the internet is becoming more limited or impossible for many because of the cost and government repression.
COVID is spreading rapidly in Iran’s prisons, which have an official population of 190,000. Women prisoners are also suffering from and dying from COVID. They include journalists, teachers, feminist and labor activists, students, environmentalists, Kurdish and Arab civil right activists, as well as Baha’i and Sufi women.
Women Prisoners and Afghan Refugees
Nasrin Sotoudeh, imprisoned feminist human rights attorney and defender of the “Girls of Revolution Avenue” is suffering from a variety of health problems in addition to COVID. Narges Mohammadi, feminist activist against the death penalty who has been nominated for the Nobel Peace Prize, was released last year after a long prison sentence, only to receive another prison sentence which also includes 80 lashes for continuing to oppose the death penalty and “endangering national security.” She has been fighting this sentence, and has attended protests in solidarity with the people of Khuzestan, striking workers and the families of political prisoners. In a recent interview, she called Iranian women’s struggles “the Achilles heel of the Iranian regime”. (https://www.facebook.com/voicesofwomenforchange/videos/241864884051720) Sepideh Gholyan, feminist labor activist, imprisoned in Khuzestan, continues to write about the plight of ethnic Arab women prisoners. She has been savagely beaten in prison and is now on hunger strike.
Iran’s Continuing Regional Ambitions and U.S. Imperialism’s “Solutions”
In the midst of all these crises and protests, the Iranian government maintains its regional imperialist interventions in Syria, Iraq, and Lebanon. It promotes its plots to kidnap and assassinate opposition activists in exile. (https://iranhumanrights.org/2021/07/foiled-kidnapping-of-dissident-part-of-irans-ramped-up-campaign-to-crush-dissent/) It continues to develop its nuclear and missile programs and has stopped its negotiation with the U.S. Biden administration on returning to the JCPOA nuclear agreement.
U.S. New York Times columnist, Thomas Friedman reveals imperialist inhumanity in his recent column on Iran where he offers a “solution” that is “the best anyone can hope for with Iran.” (https://www.nytimes.com/2021/06/15/opinion/iran-biden-nuclear-deal.html?searchResultPosition=1) He argues that the U.S. with the help of Gulf states should give more financial aid to the Assad regime to kick Iran out of Syria, maintain Russia and Turkey as dominant powers and assure the continuation of the Assad regime. This he says would reduce Iran’s danger and satisfy the U.S. and Israel. To him, the people of the region, the Syrian Arabs and Kurds and the Iranian population, are mere pawns on the U.S. and global Imperialist chessboard.
Needed Progressive Solidarity with Struggles inside Iran
No less cynical are those leftists and so-called socialists around the world who support the Iranian regime as “anti-imperialist” or refuse to criticize it.
Those who limit their solidarity to calling for the removal of U.S. sanctions, refuse to recognize the complexity of the problems in Iran. They do not address the fact that these problems are rooted both in the external imperialism of the U.S., Russia, China and internal capitalist militarism and religious fundamentalism.
Any effort to engage in solidarity with the struggles inside Iran begins not only with calling for the removal of U.S. sanctions and an end to Israel’s attacks, but also simultaneously holding the Iranian regime accountable for its repression and exploitation of the people and environment of the region. That recognition demands calling for the immediate release of political prisoners, expressing solidarity with striking workers, feminist and environmental struggles, oppressed ethnic, sexual and religious minorities, and demanding Iran’s withdrawal from Syria, Iraq and an end to its interventions in Afghanistan, Lebanon and Yemen.
In Iran, a partire dal 19 giugno a tutt’oggi, decine di migliaia di operai e tecnici degli appalti dell’industria petrolifera di 70 imprese di appalto e sub-appalto sono in sciopero per le seguenti rivendicazioni:
aumento dei salari con l’obiettivo di avvicinarli a quelli della National Iranian Oil Company (dove sono tre volte più alti);
pagamento immediato dei salari arretrati;
miglioramento delle condizioni di lavoro e rispetto delle norme sulla sicurezza sul lavoro;
10 giorni di riposo dopo 20 giorni di lavoro (i lavoratori abitano lontani dalle loro famiglie, e nel Sud del paese la temperatura può toccare anche i 50 gradi);
assunzione di tutti i precari con lo stesso contratto di lavoro a tempo indeterminato degli operai alle dirette dipendenze delle imprese petrolifere; fine del ricorso ai sub-appalti;
reintegro dei lavoratori licenziati;
abolizione di tutte le leggi che riguardano le “zone economiche speciali”;
gratuità delle cure mediche, dell’istruzione e di un alloggio decente, in modo da poter ricongiungere a sé le proprie famiglie;
diritto all’assemblea, allo sciopero e alla formazione di organismi sindacali indipendenti dai poteri costituiti.
Si sono uniti a loro, nel corso della lotta altre decine di migliaia di lavoratori in 22 raffinerie, tra cui Jahan Pars, Gachsaran Petrochemicals, Teheran Refinery e Abadan Refinery, mentre diverse altre aziende sono state costrette a sospendere la loro attività. Attestati di solidarietà e di sostegno agli scioperanti sono arrivati dai lavoratori di alcuni zuccherifici e da organismi di pensionati, di insegnanti e di studenti, oltre che da organismi sindacali di altri paesi (Iraq, Svezia, Rete sindacale internazionale di solidarietà e di lotta, etc.)
Questa lunga agitazione meriterà un’analisi più ampia e dettagliata ed una messa in prospettiva – nella storia della lotta di classe in Iran i consigli operai hanno avuto un ruolo di grande rilievo (com’è documentato da Assef Bayat, in Workers & Revolution in Iran, Zed Books). Per intanto, però, cominciamo a portare a conoscenza di chi frequenta il blog un paio di comunicati del Consiglio organizzativo degli operai in sciopero. Leggeteli attentamente: c’è abbondante materia per vedere quali sono i meccanismi che strutturano in Iran il rapporto capitale-lavoro: meccanismi interamente e perfettamente capitalistici. Sui quali, certo, ha incidenza anche la politica (infame) delle sanzioni statunitensi e occidentali contro l’Iran; ma questa infamia imperialista non può portare a sconti, e tanto meno a silenzi, sulla natura anti-proletaria della cd. “repubblica islamica”, che sotto il mantello di un uso politico e borghese della religione islamica, ammette e favorisce sul suolo iraniano ogni forma di super-sfruttamento del lavoro.
L’impatto di questa lotta sulla vita sociale e politica iraniana è stato tale da costringere il presidente Rouhani e il ministro del petrolio Bijan Zanganeh a promettere che una soluzione sarà senz’altro trovata (dal governo), mentre l’ex-presidente Ahmadinejad ha colto al volo l’occasione per punzecchiare i suoi avversari al potere, affermando in una lettera a sostegno degli scioperanti che “ignorare le proteste di coloro che hanno adoperato tutte le forme usuali (ammesse) per esprimere le loro rivendicazioni bloccate, non avrà buone conseguenze”. Sta di fatto che i lavoratori in sciopero stanno dando vita ad un vero (molto complicato) processo di auto-organizzazione, e non vogliono saperne dei “consigli islamici” e del “sindacalismo” di stato.
I due comunicati del Consiglio per l’organizzazione degli scioperi li abbiamo ripresi dal sito web Hands Off the People of Iran che, nonostante l’espressione di posizioni campiste che non possiamo fare a meno di respingere nel quadro di una lotta autenticamente internazionalista e proletaria, rimane un ottimo serbatoio di fonti documentali per quanto concerne la regione. Il materiale in in lingua inglese e in lingua francese è invece pubblicato da The Bullet e da Pasado y Presente do marxismo revolucionario (a cura di Luc Thibault).
***
Dichiarazione del Consiglio per l’organizzazione delle proteste dei lavoratori a contratto del settore petrolifero
Noi, lavoratori a contratto nelle raffinerie, nell’industria petrolchimica e nelle centrali elettriche, abbiamo scioperato il 20 giugno, come avevamo annunciato. Decine di migliaia di nostri colleghi sono attualmente in sciopero e coloro che sono dipendenti a tempo indeterminato nell’industria petrolifera si riuniranno a noi in luglio. Nel frattempo, nello stesso periodo, abbiamo ottenuto il sostegno dei lavoratori del porto di Assaluyeh. Finora, stiamo andando bene e accogliamo con favore tutto questo sostegno.
Torniamo in piazza contro le nuove guerre in gestazione, contro il governo Conte che è complice di questi preparativi, per il ritiro immediato di tutte le truppe italiane all’estero! Sostegno incondizionato alle piazze arabe e iraniane in ebollizione contro l’imperialismo e contro i propri regimi oppressivi!
L’uccisione del gen. Soleimani da parte del Pentagono non è rivolta solo contro un uomo e un regime politico che negli ultimi anni avevano saputo abilmente erodere spazi, in Iraq, Siria, in Yemen, agli Stati Uniti di Obama e di Trump e ai loro alleati. È un monito terroristico rivolto alle masse del mondo arabo e dell’intera area medio-orientale in ebollizione in Sudan, in Algeria, in Libano, in Iraq e altrove affinché abbiano ben presente chi comanda in quella regione, e tengano bene a mente che gli interessi statunitensi sono intoccabili. Questo monito va insieme al tentativo di rilanciare la falsa divisione tra “sunniti” e “sciiti” che tanto ha giovato agli interessi delle classi dominanti, globali e locali.
Non a caso Trump si è immediatamente precipitato a chiarire due cose:
”non vogliamo un regime change in Iran, non vogliamo buttare giù il regime islamico” – l’obiettivo è di limitare la sua sfera di influenza e renderlo più malleabile al tavolo dei negoziati;
se ci sarà una risposta iraniana forte, la contro-risposta statunitense sarà “sproporzionata”. Il terrorismo imperialista degli Stati Uniti e della NATO – dello stesso genere di quello che Israele attua contro le masse palestinesi – mira oltre che a dare un avviso ai governanti di Teheran e delle altre capitali dell’area amiche della Russia, a generare paura tra i rivoltosi che da due anni riempiono le piazze di questa area per cambiare radicalmente la propria condizione attraverso l’abbattimento dei rispettivi regimi. Perché questo cambiamento radicale si può realizzare solo tagliando le unghie, le ali e infine la testa alla dominazione imperialista sull’area.
Centinaia di migliaia, milioni di dimostranti, in grande maggioranza giovani proletari e semi-proletari, con la forte presenza e l’altrettanto forte protagonismo delle donne, sono scesi in campo per farla finita con i loro regimi politico-militari-confessionali, accusati di impoverire e opprimere le classi popolari ad esclusivo beneficio di piccole élite di profittatori e dei capitalisti stranieri.
Ancora una volta con la loro “marcia del ritorno”, la nuova coraggiosa sfida a Israele, sono stati gli irriducibili palestinesi di Gaza a dare l’avvio ad un seguito di movimenti sociali che sono in continuità con le grandi sollevazioni del 2011-2012. La terribile repressione di quelle sollevazioni avvenuta in Egitto, in Siria, in Bahrein, in Arabia saudita, etc. non è riuscita a intimidire a lungo le masse sfruttate e oppresse del mondo arabo.
Ed eccole di nuovo in campo, a ribellarsi ad una condizione di disoccupazione e di impoverimento diventata insostenibile, all’imposizione di nuove tasse volute dal FMI, al dispotismo, alla brutalità, alla corruzione dei propri governi, al saccheggio delle ricchezze dei loro paesi da parte delle multinazionali.
La grande novità di queste sollevazioni del 2018-2019 rispetto a quelle precedenti è che la sfiducia di massa verso i poteri costituiti coinvolge in pieno anche i militari e le formazioni islamiste, viste ormai quasi ovunque per quello che realmente sono: non l’alternativa, ma una componente organica degli apparati di potere che difendono gli interessi dei più ricchi, dei grandi parassiti di stato, dei pescecani dei capitali globali che imperversano in questa regione strategica del mondo. Continua a leggere Tutta la nostra solidarietà alle piazze arabe in rivolta!