Israele: alcuni giovani refusnik bruciano l’ordine di arruolamento. Brucia, ragazzo, brucia!

E’ successo sabato scorso a Tel Aviv, nel corso dell’abituale manifestazione contro la riforma della giustizia voluta dal governo Netanyahu: un gruppo di giovani israeliani ebrei ha bruciato in pubblico, senza ricevere disturbo dagli altri manifestanti, l’ordine di arruolamento nell’esercito. In Israele non sono molti i refusnik, si calcolano in alcune centinaia. Ma sono giovani dotati di coraggio le cui azioni vanno fatte conoscere e apprezzate, a maggior ragione se si presentano in una manifestazione come quella di Tel Aviv con le bandiere palestinesi.
Se non vorranno essere travolti dal montare delle forze fasciste e iper-tradizionaliste e svolgere l’orrenda mansione di kapò contro i palestinesi, le giovani leve dei cittadini di Israele e anche gli altri strati ebrei della società non sfruttatori dovranno seguire questo esempio, e schierarsi sempre più apertamente contro l’oppressione coloniale delle masse palestinesi, fare con gli oppressi e gli sfruttati di Palestina causa comune per la liberazione degli uni e degli altri dalla soffocante tutela dello stato di Israele, “la sola democrazia del Medio Oriente”, che è nemica dei proletari e degli spiriti liberi di tutte le nazionalità, nemica della specie umana, almeno altrettanto delle autocrazie petrolifere, sbarazzandosi anche di una dirigenza palestinese dell’Anp di Abu Mazen totalmente compromessa con lo Stato di Israele e le autocrazie arabe.
Come lo stato di Israele distrugge sistematicamente l’ambiente di vita dei palestinesi – materiali

Segnaliamo alcuni materiali utili a comprendere quale sistematica devastazione dell’ambiente di vita dei palestinesi abbia compiuto lo Stato di Israele nei passati decenni, e come questa opera di spietato colonialismo di popolamento e di apartheid prosegua senza soluzioni di continuità, anzi si stia negli ultimi anni intensificando.
Ci sarebbe qualcosina da dire, poi, sull’eco-sionismo, cioè sul tentativo dello stato di Israele di mascherare i suoi crimini (anche) ambientali magnificando i lavori di riforestazione compiuti magari sui territori di villaggi palestinesi rasi al suolo e dei quali si vuole cancellare il ricordo, come si mostra nel documentario di Mark J. Kaplan, Il villaggio sotto la foresta, con cui si è aperta a Venezia, giovedì 13 aprile, la nuova edizione della tenace e sempre bella rassegna Cinema senza diritti. [Per la memoria: furono 500 i villaggi palestinesi interamente distrutti dall’esercito israeliano all’atto della fondazione di Israele.] (Red.)
Continua a leggere Come lo stato di Israele distrugge sistematicamente l’ambiente di vita dei palestinesi – materialiIsraele: con il governo Netanyahu è in arrivo una nuova Intifada palestinese? (italiano – English)
Lo stillicidio di palestinesi assassinati dallo stato di Israele nelle ordinarie azioni di controllo, perlustrazione, incursione, caccia ai ricercati, etc. continua senza sosta nell’assordante silenzio dei mass media internazionali e nazionali, e nel disinteresse ormai cronico di quel che resta di una “sinistra di classe” sempre più affollata di sbandati e ciarlatani alla deriva.
Solo per ricordare i nomi degli assassinati dal 1 dicembre scorso ad oggi: Mohammad Badarna, 26 anni, ucciso a Yaabad (Jenin) dall’esercito. Naim Jubaidi, militante del Jahid Islami, ucciso a Jenin dall’esercito. Omar Mannaa, 22 anni, panettiere, ucciso a Betlemme dall’esercito. Mu jahed Hamed, 32 anni, ex-detenuto politico, ucciso da forze israeliane nel villaggio di Silwad (Ramallah). Tarq al Damej, Sudqi Zakameh e Atta Shalabi, uccisi nel campo profughi di Jenin dall’esercito israeliano in una retata costata anche almeno 10 palestinesi feriti. Ahmed Daragmeh, 24 anni, ucciso in uno scontro a fuoco con forze militari israeliane di scorta ad un gruppo di coloni diretti alla tomba di Giuseppe a Nablus. Fuad Abed e Mohamad Hushiyeh uccisi a Kafr Dan (Jenin) dall’esercito israeliano durante la demolizione per rappresaglia di un’abitazione palestinese. A Betlemme (il 3 gennaio) sciopero generale per protestare contro l’uccisione di un bambino da parte delle forze israeliani nel campo profughi di Aida. Amer Abu Zaitun, 16 anni, ucciso nel campo profughi di Balata (Nablus) in una incursione dell’esercito israeliano. Ahmed Abu Junaid, 21 anni, ucciso nello stesso campo profughi da unità speciali israeliane. Samir Alsan, 41 anni, ucciso al posto di blocco di Qalandiya per aver cercato di impedire l’arresto del proprio figlio di 14 anni. Habib Kamil, ucciso dai soldati israeliani a Qabatiya (Jenin) e poco dopo nella stessa località è stato assassinato Abdulhadi Nazzal. Ezzedin Hamamra (24 anni) e Amjad Khalilyah (23 anni), due combattenti palestinesi, uccisi in uno scontro a fuoco a Jaba, a sud di Jenin, dai soldati israeliani… Sempre più morti nella Cisgiordania.
Non è passato inosservato, invece, il ritorno al potere di Netanyahu alla testa di una destra sempre più estrema, che si è presentata con la provocatoria “visita” alla Spianata delle Moschee del capo del partito Sionismo religioso, Ben-Gvir, nuovo ministro della sicurezza (della repressione sui palestinesi). Il fatto è avvenuto appena cinque giorni dopo l’insediamento del nuovo esecutivo ultra-sionista ed è stato accompagnato dalla seguente dichiarazione: “Questo è il luogo più importante per il popolo ebraico. Manterremo la libertà di movimento per musulmani e cristiani, ma vi accederanno anche gli ebrei, e alle minacce di Hamas risponderemo con il pugno di ferro”. Perfino gli asserviti funzionari della cosiddetta Autorità palestinese hanno dovuto qualificare questo gesto “una provocazione che porterà a maggiori tensioni e violenze”, mentre l’altrettanto asservita monarchia giordana si è appellata alla “Comunità internazionale” contro la “violazione del diritto internazionale”, affinché la suddetta Comunità (di briganti), da sempre spalleggiatrice e complice dello stato di Israele, o – come minimo – indifferente ai suoi crimini, adotti “azioni rapide e decisive” verso Israele. Rapide e decisive… e come no?! Simili ipocrite prese di posizione sono arrivate anche da altri stati arabi. E perfino dagli Stati Uniti, la cui ambasciata in Israele ha dettato un comunicato in cui si afferma con l’abituale ambiguità: “Le azioni che possono minacciare l’ordine nei luoghi sacri di Gerusalemme sono inaccettabili”.
Eppure, come documenta in modo efficace questo articolo a firma Cenk Agcabay che riprendiamo da The Bullet, certi settori dei mass media statunitensi e israeliani sono realmente in allarme per il prevedibile impatto della politica anti-palestinese più che mai oltranzista, bellicista, stragista che il governo Netanyahu ha in agenda. Il timore di costoro non è per le terribili conseguenze che tutto ciò può avere per la vita delle masse palestinesi, ma – al contrario – per la messa in questione della “sicurezza di Israele”, a misura che inevitabilmente porterà ad una reazione militante, combattente palestinese, e di riflesso – in qualche misura – anche araba.
L’articolo di Agcabay parla di una radicalizzazione in corso nelle masse giovanili palestinesi (c’è bisogno di specificare che si tratta di giovani proletari?)“in modi che non abbiamo mai visto prima“, che non hanno più alcuna fiducia nella “Autorità palestinese”, e neppure accettano le vecchie divisioni settarie – come si è visto nell’ultima grande ondata di manifestazioni e scioperi del maggio 2021. Ma la preoccupazione statunitense ed occidentale va molto al di là della sola Palestina, riguarda l’intero mondo arabo, che – a livello di massa – non ha affatto dimenticato la causa palestinese: prova ne sia quanto accaduto anche nel corso degli ultimi mondiali in Qatar, come si sostiene nell’articolo di Ramzy Baroud, a cui rinviamo più sotto, pubblicato da The Palestine Chronicle.
Da tempo il vento che spira nel mondo arabo non porta buoni messaggi ai super-colonialisti di Washington e della UE. Trent’anni ininterrotti di guerra in Iraq non hanno certo prodotto un trionfo statunitense, né sul piano economico né su quello politico. Le due grandi sollevazioni di massa avvenute in una molteplicità di paesi arabi negli anni 2011-2012 e 2018-2019, sebbene non abbiano avuto risultati risolutivi, hanno tuttavia risvegliato dalla passività e dal fatalismo milioni e milioni di sfruttati/e e oppressi/e facendogli fare un’esperienza di auto-organizzazione di enorme significato, che ha indebolito la legittimità e la solidità di regimi nella gran parte dei casi infeudati alle potenze occidentali. Anche ai vertici dei paesi arabi i governi occidentali notano e temono una crescente assertività – che ha evidentemente qualcosa a che vedere con le sollevazioni popolari, a cui non si può rispondere solo ed esclusivamente con gli eccidi e le carceri. L’enorme massa di rendita globale affluita nelle casse delle petrolmonarchie che stanno beneficiando della crescente scarsità di risorse energetiche, e l’avvento di una nuova generazione di governanti sempre più ambiziosi e modernizzanti, stanno portando questi regimi ad allontanarsi dalla soffocante tutela dei signori del dollaro e dell’euro e ad intrecciare rapporti sempre più autonomi con la Cina, la Russia e gli altri paesi ascendenti in attrito con i vecchi padroni del mondo. In un contesto così complicato per gli interessi occidentali e così denso di sostanze infiammabili, il neonato esecutivo Netanyahu imbottito di coloni fascisti o semi-fascisti nei posti di comando chiave può, con le sue decisioni e azioni, provocare un incendio di inedite proporzioni di cui potrebbe beneficiare, in ultima analisi, solo la causa della rivoluzione sociale anti-imperialista e anti-capitalista nel mondo arabo e alla scala mondiale.
Ecco perché la solidarietà attiva, permanente, con la lotta di liberazione delle masse oppresse e sfruttate di Palestina contro lo stato di Israele e i suoi protettori e complici, è un punto fermo dell’autentico internazionalismo proletario. (Red.)
Leggi anche: 18 maggio, sciopero generale in Palestina, dal fiume al mare! ()
***
E’ in arrivo una nuova Intifadah?
[Click here for the English version of the article]
Ciò che viene scritto questa settimana dalla stampa mainstream occidentale e israeliana sulla composizione politica del nuovo governo israeliano offre importanti spunti per il prossimo futuro. Secondo un editoriale del New York Times, “il governo di estrema destra che presto prenderà il potere, guidato da Benjamin Netanyahu, segna una rottura qualitativa e allarmante con tutti gli altri governi nei 75 anni di storia di Israele”.
L’editorialista del New York Times Thomas Friedman, appena tornato da un viaggio in Israele, ritiene che il nuovo governo sarà “il governo più ultranazionalista e ultrareligioso nella storia del Paese”. Friedman scrive di essere molto preoccupato per il futuro di Israele perché “quattro dei cinque leader del partito del nuovo governo di coalizione – Netanyahu, Aryeh Deri, Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir – sono stati arrestati, accusati, condannati o imprigionati per corruzione o istigazione al razzismo”.
Secondo Friedman, l’esito più probabile delle politiche del nuovo governo è “un completo pasticcio che renderà Israele non più una fonte di stabilità per la regione e il suo alleato americano, ma piuttosto un calderone di instabilità e una fonte di preoccupazione per il governo degli Stati Uniti”. L’editoriale è anche preoccupato per il futuro di Israele e ritiene che il nuovo governo “rappresenti una minaccia significativa per il futuro di Israele, la sua direzione, la sicurezza e persino l’idea di una patria ebraica”.
Guerra di religione?
Yaakov Katz, editorialista del Jerusalem Post, ha espresso preoccupazioni simili nel suo articolo. Egli si è occupato specificamente di un accordo raggiunto nel parlamento israeliano a favore dei suddetti candidati ministeriali razzisti e religiosi. Sono state emanate speciali leggi ad personam a tutela di questi individui, che non potevano diventare ministri a causa dei loro crimini e delle condanne a loro carico, consentendogli così di diventare ministri. Katz ha scritto che questi accordi legali erano “storici” per il paese. Nel suo articolo, Katz ha attirato l’attenzione sul pericolo che “Israele si trasformi in uno stato religioso”.
In Israele anche per Amnesty International c’è l’apartheid contro i palestinesi
Ha suscitato sorpresa, perfino scandalo, un rapporto di Amnesty International presentato nei giorni scorsi a Gerusalemme Est in cui, per la prima volta, questa organizzazione ha ammesso che in Israele esiste, per i palestinesi, una condizione di apartheid. Ed in cui, altra novità, si riconosce che questo stato di cose non è recente, non risale alla guerra del 1967, bensì alla costituzione stessa dello stato di Israele. In Israele, infatti, anche i palestinesi con cittadinanza (sui documenti) israeliana non sono cittadini con pieni diritti, essendo discriminati e inferiorizzati in tutti gli ambiti della vita sociale. Come, del resto, ha riconosciuto nel marzo 2019 Netanyahu senza infingimenti: “Israele non è uno stato di tutti i suoi cittadini… [ma piuttosto] lo stato-nazione degli ebrei, e soltanto di essi”. Un’affermazione che ha esplicitato senza giri di parole il contenuto della legge approvata il 18 luglio 2018 dalla Knesset (con 62 voti favorevoli, 56 contrari e due astenuti) nella quale ufficialmente lo stato di Israele è definito, in termini etnico-religiosi, “la casa nazionale del popolo ebraico“, con un’evidente discriminazione nei confronti dei cittadini arabi di Israele e delle altre minoranze nazionali ( https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/israele-i-rischi-della-nuova-legge-sullo-stato-nazione-21068 ).
Il titolo del rapporto di Amnesty è insolitamente chiaro: “L’apartheid di Israele contro i palestinesi: un crudele sistema di dominazione e un crimine contro l’umanità”. Nel testo, esistente in cinque lingue (inglese, arabo, francese, ebraico, spagnolo), la parola apartheid ricorre 390 volte, tanto per non lasciare dubbi. E quali dubbi, poi?
Secondo Amnesty l’atto iniziale del processo di dispersione, oppressione (e super-sfruttamento – aggiungiamo noi) del popolo palestinese ha avuto luogo nel 1948 attraverso la “pulizia etnica” che ha portato all’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi dalle loro case, senza però ammettere in seguito la possibilità di un loro ritorno in quanto rifugiati. Il “diritto internazionale” riconosce il diritto al ritorno, così pure la risoluzione 194 dell’Onu (una delle infinite risoluzioni Onu in questa materia rimaste carta straccia), lo stato di Israele no.
Continua a leggere In Israele anche per Amnesty International c’è l’apartheid contro i palestinesi