Melilla (Marocco), San Antonio (Texas), Mediterraneo: le stragi senza fine degli emigranti. Occidente assassino!

Nell’arco di pochi giorni tre orrende stragi hanno riportato alla luce quella guerra agli emigranti che gli stati di tutto il mondo conducono senza pause da decenni. E che sta diventando sempre più crudele specie ai confini (esternalizzati) dell’Unione europea e degli Stati Uniti.

Melilla (Marocco)

Alle prime ore del giorno di venerdì 24 forse duemila emigranti, molti dei quali sudanesi, hanno organizzato un assalto di massa alle recinzioni che a Melilla separano l’enclave coloniale spagnola dal territorio marocchino. A distanza di giorni non si riesce a conoscere esattamente neppure il numero delle vittime, mentre i governi fratelli di Madrid e di Rabat cercano di accreditare perfino la spudorata tesi di morti “da calca”. Le associazioni degli emigranti parlano, invece, di sanguinosa repressione da parte della polizia del Marocco, con l’attiva complicità delle omologhe forze spagnole. I morti sono almeno 23, quasi certamente 36 (o di più ancora?), e centinaia i feriti.

Primo video (El Pais).

Secondo video (idem).

Il premier spagnolo Sánchez ha chiamato in causa le “mafie internazionali” specializzate nel traffico di esseri umani, congratulato dai suoi amici marocchini con i quali a sua volta si è congratulato. Ma il portavoce dei manifestanti, Husein, lo ha azzittito: “noi sudanesi non abbiamo mafie. Ci uniamo. Non paghiamo niente, siamo arrivati qui gratis; abbiamo solo usato la testa e abbiamo escogitato un buon piano [per lasciare il Marocco] perché abbiamo sofferto molto. Il mafioso è Mohamed VI, che ha preso tutti i soldi [che Bruxelles dà a Rabat per il controllo e la cura dei migranti irregolari] ed è scomparso. Dato che abbiamo subito diversi raid alla recinzione, sappiamo molto bene cosa stanno facendo le autorità marocchine in termini di abusi e violazioni dei diritti umani”.

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Gli interessi dei capitalisti italiani e dello stato italiano nella guerra afghana – Angela Marinoni

Girano differenti valutazioni sull’intervento italiano in Afghanistan. Fra le più diffuse: che l’Italia sia intervenuta come “reggicoda” degli Usa, per ottenere dal governo americano l’avallo a un ruolo preminente in Libia; e che in cambio di un esborso notevole non abbia ottenuto in cambio quasi nulla, né per affari realizzati, né in termini di considerazione e peso diplomatico.

In realtà l’Italia ha una sua storia indipendente di rapporti con l’Afghanistan (nota 1), e ha visto l’intervento militare in Afghanistan non tanto in termini di lotta all’estremismo islamico (come l’Urss) o di controllo geostrategico nei confronti di Cina e India da un lato e dell’Iran dall’altro (come gli Usa), quanto piuttosto come base per intensificare e proteggere i propri interessi in paesi “amici” come l’Iran, il Turkmenistan e Cina, un modo per creare un proprio avamposto nell’Asia centrale – senza ovviamente trascurare l’interesse allo sfruttamento diretto delle immense risorse minerarie afghane (tuttora rimaste, però, allo stato potenziale).

Riguardo alla seconda considerazione, la guerra è stata certamente un disastro per chi ha creduto alle favolette tipo “sostenere il processo democratico”, “garantire la pace all’Afghanistan”, “contrastare la violenza sulle donne”, “contenere il commercio di oppio”. Nessuna guerra capitalistica può avere scopi del genere, e solo l’estrema ipocrisia dei “nostri” media, dei politici e dei pennivendoli dell’imperialismo può ricorrere ad argomenti del genere.

Il “modello normale” delle operazioni militari di un normale paese capitalistico è che la guerra viene pagata dai lavoratori, con la vita se militari, con le tasse se civili. A guadagnarci, anche in caso di sconfitta, sono i pescecani o i piranha di guerra: in prima battuta chi offre prestiti, fornisce armi, equipaggiamento, sostegno logistico. In seconda battuta, se si ottiene il controllo di un territorio, chi ci investe, chi ne ottiene materie prime o ne sfrutta le risorse, chi ottiene appalti e monopoli.

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