Il nuovo disordine mondiale / Vittorie perdute*- Sandro Moiso

US Secretary of Defense Lloyd J. Austin III (2-L) speaks in the presence of Ukrainian Defense Minister Oleksii Reznikov (R) and US Chairman of the Joint Chiefs of Staff, general Mark Milley (L) during a meeting of Ministers of Defense at the US Air Base in Ramstein, Germany, 26 April 2022. [EPA-EFE/RONALD WITTEK]

Davvero USA, NATO, UE sono in grado di vincere questa guerra? Con quali costi e con quali divisioni, che già oggi appaiono? E se l’eventuale vittoria fosse peggiore di quella di Pirro?

Riprendiamo da Carmilla on line la puntata n. 12 della serie di articoli che Sandro Moiso ha dedicato al “nuovo disordine mondiale”.

Moiso, con la cui descrizione della natura e della fase del conflitto siamo in largo accordo, in questo passaggio della sua analisi ragiona sui possibili sviluppi della guerra in corso tra NATO e Russia in un modo che potrebbe essere giudicato temerario per l’ipotesi che ne emerge. A noi sembra, invece, che il suo ragionamento, che non si lascia irretire dal feticcio della potenza bellica presa a sé stante, abbia un suo solido retroterra: la constatazione del declino storico dell’imperialismo occidentale e dell’ascesa storica delle grandi potenze orientali, Cina e India (un retroterra tratteggiato con maestria, dal lato cinese, dai lavori di Qiao Liang).

Le guerre moderne sono certo più “progettabili” di quelle passate, nelle quali un semplice evento atmosferico era in grado, talvolta, di capovolgere gli esiti più favorevoli. Ma ciò non toglie che i piani di “vittoria” messi a punto nel consesso di guerra a Ramstein lo scorso 26 aprile, possano infrangersi contro la durezza dei fattori avversi per difetto di un’adeguata visione strategica.

Non ci può essere alcun dubbio sul fatto che USA e comandi NATO abbiano impostato la guerra contro la Russia in Ucraina con l’obiettivo di far impantanare e indebolire la Russia (“metterla in ginocchio”, copyright di tale Gigi Di Maio), coinvolgere forzosamente i recalcitranti alleati europei (almeno in parte) contro i propri stessi interessi, e infine assestare qualche colpo di avvertimento alla Cina, l’avversario ultimo della contesa globale.

Ma davvero USA, NATO, UE sono in grado di vincere questa guerra? Con quali costi e con quali divisioni, che già oggi appaiono? E se l’eventuale vittoria fosse peggiore di quella di Pirro? Naturalmente, non sono domande che ci facciamo dall’esterno dello scontro bellico, da spettatori, ma avendo ben presenti i compiti di lotta disfattisti (per la sconfitta del “nostro” imperialismo) che spettano a degli internazionalisti militantie a quanti intendano impegnarsi davvero contro questa guerra. (Red.)

“Siamo in guerra. Ma per quale vittoria? E se non lo sappiamo, come potremo stabilire se avremo vinto o perso, quando mai finirà?” (Lucio Caracciolo).

“Questo è il futuro, sorellina…” (La canzone del tempo – Ian R. MacLeod).

Ci siamo. Dopo più di sessanta giorni dal suo inizio, la guerra nei fatti è dichiarata. Non quella della Russia con l’Ucraina, ma quella che fino ad ora si è manifestata, nemmeno troppo, sottotraccia: Biden contro Putin, Nato contro Russia e contro gli alleati recalcitranti, Occidente “democratico” contro resto del mondo “autoritario”.

Ma guai a parlare di imperialismo, se non è quello russo-putiniano; guai a parlare di pace se non è quella dettata dai cannoni e dall’invio di armi; guai a ragionare; guai ad uscire dal coro; guai a smontare la propaganda bellica di entrambi le parti in conflitto. Guai, guai, guai…

Basti invece cantare come i sette nani disneyani: Andiam, andiam, andiam a guerreggiar… (i nanetti di allora cantavano lavorar, ma che importa ormai ai nano-burocrati rappresentanti del capitale internazionale?). Oppure “Bella Ciao”, contro qualsiasi commemorazione della Resistenza che non si limiti ad esaltare l’unità nazionale e interclassista con i fascisti di un tempo e con quelli di oggi.

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Ancora sulle elezioni negli Stati Uniti. Due testi di M. Roberts e J. Rasmus

Riceviamo e pubblichiamo questi due interventi di analisi delle elezioni statunitensi. Le elezioni sono per noi nulla più che una cartina di tornasole, un test (non sempre del tutto veritiero) dei processi e dei movimenti in atto in una data società. Se ci torniamo su con altro materiale di documentazione, è perché tutto ciò che accade di rilevante negli Stati Uniti ha una speciale importanza per la politica mondiale, quindi anche per la politica italiana, nonostante l’evidente declino di questo capobastone storico del capitalismo globale e il periodo caotico che sta attraversando.

Il testo dell’economista M. Roberts ha una sua utilità per l’analisi del voto, ma (oltre a contenere una battuta di pessimo gusto chauvin sull’Albania) ha due evidenti difetti: 1) separa l’esito elettorale dal sommovimento sociale – il movimento per George Floyd – che ha scosso gli States negli scorsi mesi, e ha suscitato contro-movimenti di non poco conto; 2) dà un’interpretazione troppo ottimistica, quanto meno nel titolo, dell’esito elettorale del 3 novembre quando parla, in generale, di donne, giovani, classe operaia, minoranze etniche – che queste forze sociali siano state determinanti (specie nelle grandi città) per la sconfitta di Trump è certo, ma guai a vederle come blocchi compatti, non è affatto così.

Il principale pregio del testo di J. Rasmus è, invece, di sottolineare l’importanza del fattore ideologico-politico, del razzismo bianco, oltre che in queste elezioni, nello scontro sociale che verrà, perché tutto è possibile salvo che il movimento pro-Trump smobiliti – al momento le sue milizie, tanto per dire, stanno dandosi da fare a reclutare veterani di guerra (https://alencontre.org/ameriques/americnord/usa/etats-unis-les-milices-dextreme-droite-recrutent-des-veterans-contre-ce-courant-il-nous-faut-nous-organiser.html). Un buon vaccino, questo, contro ogni lettura economicista/meccanicista degli svolgimenti sociali. Il grosso limite del testo, però, è di considerare l’enorme forza del razzismo come dovuta alla manipolazione di “politici intelligenti almeno nell’ultimo quarto di secolo”. Negli Stati Uniti, al contrario, il razzismo ha un carattere sistemico – è profondamente innervato sia nello stato a tutti i livelli (non semplicemente nelle forze di polizia) che nei rapporti sociali da secoli di riduzione in schiavitù della popolazione afro-americana. Sicché, guardando in prospettiva, è necessario domandarsi quale sarà il nesso tra una nuova guerra civile e la rivoluzione sociale (https://illwilleditions.com/prelude-to-a-new-civil-war/).

Infine, in entrambi i testi qualche speranzella che Biden e i democratici possano cambiare in profondità la politica di Trump c’è. In noi nessuna. Biden, accusato in campagna elettorale dalla sua stessa vice di essere un razzista, e la sua vice, che da procuratrice distrettuale e poi da Attorney general è stata spietata con i più marginali (qualsiasi colore avessero, incluso il nero – come hanno messo in luce i settori più radicali di BLM), apporteranno tutt’al più dei ritocchi cosmetici alle politiche di Trump, come del resto è stato negli 8 anni del premio Nobel per la pace, il bellicista Obama. Questi funzionari devoti del grande capitale statunitense hanno dichiarato a chiare lettere il loro scopo: “far sì che l’America, ancora una volta, guidi il mondo” – Make America Great Again, al quadrato.

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“Fuck Biden. Fuck Trump”. Da Denver (Colorado). Un piccolo anticipo di futuro

Denver, 4 novembre, prima serata. L’esito delle elezioni è ancora incerto, diverse manifestazioni si formano in città, contrate dal solito intervento della polizia, che fa anche diversi arresti (la stampa italiana non ne parla, ma in questi giorni ci sono state centinaia di arresti contro dimostranti anti-Trump o, come in questo caso, sia anti-Trump che anti-Biden). In una di queste dimostrazioni si imbatte il reporter di “Westword“, Conor Mccormick-Cavanagh, che ci trasmette, alquanto frastornato da quel che vede e sente, questa interessante istantanea, conclusa dalla solita nenia sulle vetrine rotte. Tutti coloro che, a destra centro o sinistra, sono convinti, o semplicemente sperano, che Biden potrà riportare la pace sociale negli States, avranno modo di restare delusi.

Protestors burned a Trump flag.

Nella prima serata del 4 novembre, con le elezioni presidenziali ancora in sospeso, circa 100 persone si sono riunite a Cheesman Park, e hanno poi marciato verso il Campidoglio per una manifestazione pubblicizzata sui social media come “Denver contro Trump!”. Nelle ore successive ci sono state alcune manifestazioni pacifiche, ma anche scontri con la polizia, distruzione di proprietà e arresti. La maggior parte delle finestre rotte dai manifestanti erano di banche e altri istituti finanziari lungo East Colfax Avenue.

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I grandi interessi capitalistici che sono dietro Biden (Pagine marxiste)

Riceviamo e volentieri riprendiamo queste interessanti note dei compagni di Pagine Marxiste sui grandi interessi capitalistici che stanno dietro Biden, e spiegano una parte del suo successol’altra parte è legata evidentemente alle lotte del BLM di quest’anno, al movimento delle donne, sceso per primo in campo contro Trump il 21 gennaio 2017, ed anche alla ripresa delle agitazioni operaie negli ultimi mesi, che di sicuro non gli ha giocato a favore. Abbiamo già brindato a caldo al gigantesco caos istituzionale che sta andando in scena negli Stati Uniti e ne sta ulteriormente logorando l’immagine nel mondo. Ieri addirittura Pompeo ha parlato di “transizione ad una seconda amministrazione Trump” poche ore dopo che il tycoon aveva silurato il capo del Pentagono contrario a utilizzare l’esercito per schiacciare i “disordini” interni Attraverso la puntuale analisi dei faraonici finanziamenti ai due contendenti, questa documentazione mostra quanto diviso sia lo stesso grande capitale statunitense tra l’ipotesi di rilancio old style dell’economia statunitense perseguita da Trump (e dalla Goldman Sachs) e quella che esprime i mega-interessi coalizzati intorno al partito democratico.

Centinaia di milioni di persone in USA e nel mondo non vedranno più ogni giorno in TV quella chioma rossa costata 800 mila dollari sopra quel volto da mastino sparare veleni contro gli immigrati, contro le donne, contro la natura, contro tutto ciò che non è American. Questo populismo rozzo e becero di un pescecane cresciuto con le speculazioni immobiliari che si atteggia a patrono della working class, alimentandone nazionalismo e corporativismo, perde il suo più potente megafono su scala mondiale, con cui entravano in risonanza i populismi d’Europa e del mondo. Ciò non può non darci un senso di sollievo.

Ma non vi è nulla di cui gioire per la vittoria di Joe Biden. Biden non è l’anti-Trump. Biden è l’espressione della stessa classe capitalistica che ha sostenuto Trump, si pone gli stessi obiettivi di preservazione del dominio dell’imperialismo americano nel mondo, ma con metodi più tradizionali e meno dirompenti rispetto al sistema multilaterale di relazioni internazionali costruito nel dopoguerra, e anche rispetto agli equilibri interni. Punta a bloccare l’ascesa del rivale cinese con l’aiuto degli alleati europei, giapponese, indiano anziché sparando in assolo contro tutti. Ma storicamente i presidenti democratici sono perfino più inclini dei repubblicani a iniziare guerre.

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Una grande notizia: la super-potenza yankee è nel caos

Il 2020 è l’anno delle grandi notizie dagli Stati Uniti. La prima arrivò nei giorni successivi al 25 maggio con la nascita del forte movimento di giovane proletariato nero e multirazziale per George Floyd. La seconda (che ha evidenti nessi con la prima) è delle ultime ore: l’esito contrastato delle elezioni presidenziali e lo scoppio di una vera e propria, devastante, crisi istituzionale con Trump, il presidente in carica, che accusa gli avversari democratici e il presidente entrante di essere dei ladri, fa appello alla mobilitazione dei suoi sostenitori e si prepara a chiamare in causa la Corte suprema per invalidare il voto. Troppo bello per essere vero! Ma è vero. Lo diciamo non da anti-americani, è banale, bensì da anti-capitalisti, da internazionalisti rivoluzionari che tifano sfegatatamente da sempre per l’altra America, per la nostra America. E vedono nell’indebolimento della super-potenza di Wall Street e del Pentagono un fattore fondamentale di destabilizzazione dell’intero ordine capitalistico mondiale – quello che ogni giorno toglie il respiro a miliardi di lavoratrici e lavoratori in tutto il globo, fuori e dentro i confini del Nord America.

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