“Grigia è ogni teoria, caro amico. Verde è l’albero aureo della vita.” (Goethe – Faust)
Chi ci conosce, sa bene che abbiamo sempre ritenuto il reddito di cittadinanza come poco più che un’elemosina di stato, e ciò da molto prima che il governo Conte 1 lo rendesse realtà.
Per decenni la “fu” sinistra di classe si è fronteggiata duramente e si è divisa attorno al tema delle rivendicazioni immediate per il contrasto alla disoccupazione di massa, fattore fisiologico e “necessario” al normale funzionamento del modo di produzione capitalistico ad ogni latitudine.
Tale confronto si è articolato nel tempo essenzialmente attorno a 3 posizioni:
A) i sostenitori del “lavorismo a tutti i costi”, in larga parte eredi delle concezioni staliniste e togliattiane, secondo i quali “solo il lavoro nobilita l’uomo” e solo attraverso la (s)vendita della propria forza-lavoro, a qualsiasi condizione imposta dai padroni, un proletario può acquisire la “patente” di soggetto antagonista al capitale: per costoro il disoccupato, in sostanza, non è altro che un proletario di “serie B”, o peggio un “sottoproletario“, in quanto tale non meritevole di particolare attenzione politica né tanto meno portatore di interessi che vadano al di là di quello a trovare un impiego, qualsiasi esso sia.
B) la vulgata “post-operaista”, secondo la quale le trasformazioni del capitalismo contemporaneo prodotte dalla cosiddetta “globalizzazione”, e in primis dall’automazione su larga scala, avrebbero portato al definitivo superamento della centralità del conflitto capitale-lavoro e all’emergere di una “moltitudine” di esclusi dal ciclo di produzione, quindi di un “nuovo soggetto” sociale la cui ricomposizione dovrebbe avvenire principalmente attraverso la rivendicazione di un “reddito di base universale“.
C) la posizione del marxismo rivoluzionario, che individuando nella disoccupazione di massa, nella marea di contratti precari e a termine e nel lavoro nero una formidabile leva in mano ai padroni per dividere e polverizzare il fronte proletario, vede nella lotta per il lavoro stabile e/o il salario garantito a tutti i disoccupati il principale strumento per un’effettiva ricomposizione di classe, fuori e contro le due “religioni” del lavorismo e della “fine del lavoro”, opposte tra loro sul piano rivendicativo ma, nei fatti, complementari nella loro natura riformista. E, naturalmente, rilancia la prospettiva della lotta per la riduzione drastica e generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario, per il solo lavoro socialmente necessario – una tematica storica del movimento operaio organizzato.
Questa, a larghe linee, l’essenza del dibattito nell’iperuranio della “grigia teoria” di faustiana memoria.
Nel frattempo, negli ultimi decenni abbiamo assistito, in generale nella realtà dei paesi a capitalismo avanzato e più in particolare in Italia, a una impressionante rincorsa verso il basso del salario medio reale: smantellamento dei CCNL, proliferazione di contratti pirata e capestro, dilagare di contratti precari, a tempo parziale e intermittenti, sfruttamento sempre più sistematico del lavoro nero nei settori dell’economia “informale”, nella filiera bracciantile, nel ginepraio del commercio, del turismo e dei servizi (da sempre pilastri del sistema di accumulazione “made in Italy”), moltiplicazione dei contratti “grigi” nella logistica e nell’agro-alimentare grazie all’utilizzo delle finte cooperative e al supersfruttamento della forza lavoro immigrata, perennemente soggetta al ricatto della revoca del permesso di soggiorno.
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