Iran: una nuova ondata di proteste e scioperi di massa – Frieda Afary (italiano – english)

Una immagine delle recenti proteste in Khuzestan per la mancanza di acqua

Nell’ormai abituale alternanza tra “riformatori” e “conservatori”, si installa in questi giorni ai vertici della “repubblica islamica”, Ebrahim Raisi. Lo fa grazie al sostegno di Khamenei e all’appoggio della ricca e potentissima Bonyad-e Emam Reza di Mashad, una delle Fondazioni parastatali con le più estese proprietà terriere e il maggior numero di dipendenti. Questo cambio della guardia al vertice avviene proprio mentre l’Iran è attraversato da un’ondata di lotte operaie e proteste sociali non meno ampia e duratura di quelle esplose contro il carovita nel novembre 2019 in 21 città, che costarono ai dimostranti molte centinaia di morti (secondo alcune fonti furono addirittura 1.500) e migliaia di arresti.

Abbiamo già presentato queste lotte qualche settimana fa in un piccolo dossier. Ci ritorniamo ora con questo aggiornamento di Frieda Afary perché ci sembra necessario infrangere, per quel po’ che possiamo, il muro di silenzio che la stampa del “nostro” regime da un lato, e lo squallido posizionamento campista, esplicito o implicito, di larga parte dell'”estrema sinistra” dall’altro, stendono intorno ad esse, in particolare intorno alle lotte operaie.

Ci torniamo perché per noi la gigantesca sollevazione rivoluzionaria che mandò in frantumi nel 1979 il regime dello Scià, uno dei bastioni – insieme con lo stato di Israele e la monarchia saudita – della dominazione imperialista occidentale sul proletariato e le masse sfruttate del Medio Oriente, ha posto il movimento proletario dell’Iran in una posizione di speciale rilievo internazionale, corrispondente per altro verso alla grande vicenda storica e alla collocazione strategica di quel paese.

Ci torniamo perché per noi, a differenza di certi sedicenti “comunisti” che disonorano il comunismo, fin dal primo giorno la “repubblica islamica” di Khomeini e Khamenei è stata, ad onta dell’abile demagogia sui mostazafin (gli oppressi) di cui si è adornata, un brutale apparato capitalistico di oppressione sul proletariato, gli sfruttati, la massa delle donne senza privilegi e le minoranze nazionali, curde e arabe anzitutto. E tale è rimasta nei quattro decenni della sua esistenza, quali che siano stati i suoi scontri, le sue frizioni, i suoi accordi aperti o sottobanco con gli Stati Uniti (intorno al nucleare o in Iraq); frizioni, scontri e accordi che non hanno mai riguardato la tutela delle condizione di esistenza e, tanto meno, la sorte delle masse sfruttate e oppresse dell’Iran e della regione medio-orientale.

Nel corso degli anni ’80 questo apparato capitalistico di oppressione sterminò, o costrinse all’esilio e disperse ai quattro angoli del mondo, un promettente, coraggioso giovane movimento marxista (ci riferiamo all’Ucm e al Partito comunista d’Iran dei primi anni ’80, e la militanza rivoluzionaria non si esauriva allora con questi compagni), privando così la lotta del proletariato, e le proteste sociali che si sono susseguite negli ultimi tre decenni, della loro espressione politica più avanzata. Ma gli antagonismi sociali non sono certo scomparsi in Iran, e – anche per effetto delle odiose sanzioni statunitensi ed europee – si stanno riacutizzando con un epicentro che, nell’ultimo decennio, è sempre più spostato verso il cuore del proletariato industriale (inclusa l’industria dei trasporti).

Ricacciato all’indietro con la violenza più efferata, in cui proprio il nuovo presidente Raisi ha avuto una parte di spicco con la mattanza nelle carceri di migliaia di detenuti politici avvenuta nel 1988, e con la manipolazione e diversione di massa compiuta “in nome dell’islam”, il movimento proletario iraniano sta riprendendo, come può, dalle lotte immediate, e da prime, significative forme di solidarietà tra i lavoratori di differenti settori, e tra lotte operaie e movimenti sociali contro l’aumento dei prezzi, l’oppressione delle donne, la mancanza di acqua, la gestione fallimentare della pandemia del Covid.

Nel frattempo, la polarizzazione della ricchezza sociale non fa che crescere – come ammettono la stessa ala “populista” dell’establishment islamista, la Jaryan-e enherafi (corrente dei devianti) di M. Ahmadinejad, ed altre componenti dell’area degli Hezbollah.

Che si stia progressivamente scavando un solco tra il potere politico, economico, giudiziario islamista, in tutte le sue molteplici e variegate componenti, e una crescente massa di appartenenti al campo degli sfruttati, lo prova la stessa decrescente partecipazione al voto: ferma al 42% (la più bassa di sempre) nelle elezioni parlamentari dello scorso anno, e al 48,8% (la più bassa di sempre) nelle presidenziali di giugno.

Che le contraddizioni di classe e sociali si stiano facendo esplosive, l’ha ammesso lo stesso Raisi nel suo discorso di insediamento: “Da oggi, la mia amministrazione seguirà un programma urgente e a breve termine per rimuovere i dieci problemi più importanti del Paese, compresi quelli relativi alla carenza di budget, investimenti, inflazione, diffusione del coronavirus, carenza di acqua ed elettricità”. Non più di qualche giorno fa l’uscente ministro della sanità aveva fatto solenne appello all’aiuto dell’esercito per contrastare una ripresa dell’epidemia che appare fuori controllo (l’appello all’esercito accomuna la “cristiana” Italia e l'”islamico” Iran, a dimostrazione che le questioni sociali non hanno assolutamente nulla di religioso).

Le denunce come quella di Frieda Afary sono utili proprio perché permettono di portare a conoscenza di chi non si limita a guardare solo alla città o alla nazione in cui vive, lotte che sono costate e costano ai nostri fratelli e sorelle di classe iraniani grandi sacrifici, non di rado la stessa vita; lotte che ci riguardano più di quanto si possa credere.

Ciò detto, precisiamo che il nostro punto di vista differisce dal suo sotto diversi aspetti:

  1. sebbene l’Iran non vada in alcun modo equiparato a Cuba quanto a consistenza della sua economia (quella iraniana è la diciottesima economia del mondo per Pil, la cubana è al posto 105), della sua demografia (83 milioni e passa di abitanti contro 11 milioni) e della sua struttura politico-militare (circa 1 milione di soldati a fronte di 50.000 scarsi); e sebbene negli ultimi due decenni la sua “economia di resistenza” e i suoi rapporti con la Cina e la Russia si siano fatti sempre più robusti e abbiano in larga parte controbilanciato le perdite di mercato ad ovest; le sanzioni statunitensi ed europee hanno il loro peso – e vanno denunciate con forza, preliminarmente, da chi nell’Occidente si trova ad agire. Anche Afary lo fa, sia chiaro, ma in maniera che ci sembra troppo collaterale.
  2. E’ improprio parlare, per l’Iran, di imperialismo, dal momento che questo termine – nella nostra lingua, almeno – si riferisce alla capacità di competere, su date basi economico-finanziarie e militari (che l’Iran non ha), per la spartizione del mercato mondiale. L’Iran è, invece, una potenza capitalistica regionale con i suoi tentacoli in Iraq, in Libano, in Siria, in Yemen, in Afghanistan, come del resto ha apertamente rivendicato nell’ottobre 2020 il generale Safavi: “Il nostro potere è andato al di là del territorio iraniano e noi – da un potere nazionale – ci siamo trasformati in un potere regionale”.
  3. Tutte le ‘singole’ denunce contenute in questo articolo sono fondate, e chi – come noi – si muove lungo la linea del “Che fare?” [“le denunce politiche di tutti gli aspetti della vita sociale sono la condizione necessaria e fondamentale dell’educazione dell’attività rivoluzionaria delle masse”], non può che sottoscriverle. Altra cosa, però, è mettere le espressioni della lotta di classe in Iran un po’ tutte sullo stesso piano – c’è una bella differenza tra le agitazioni studentesche del 1999 per la libertà di stampa (sostanzialmente limitate a Teheran); il quieto “movimento verde” del 2009, con una prevalente composizione di ceti medi, finalizzato a rimettere in discussione i risultati elettorali in diretto collegamento con i “riformatori” Mousavi e Kharrubi; le accese proteste degli strati sociali più deprivati contro la disoccupazione e l’inflazione del 2017-2018 che hanno coinvolto più di 70 città minori dell’Iran (con 25 morti e almeno 3700 arrestati) e sono stati i primi ad esprimere un rifiuto radicale dell’intero apparato di potere islamista; l’ancor più radicale esplosione del novembre 2019, nata contro il vertiginoso aumento del prezzo del carburante, e divenuta una protesta contro il governo e anche, per la prima volta, contro lo stesso Khamenei, con i dimostranti proletari e diseredati capaci di rispondere alla sanguinosa repressione statale con l’assalto a centinaia di banche (anche alla Banca centrale); ed infine il movimento di scioperi operai e le proteste popolari per la mancanza d’acqua attualmente in corso. Saremo pure gente del “secolo scorso”, fa niente, ma siamo certi che non ci si potrà liberare dalla macchina capitalistica di oppressione e di sfruttamento che si è data il nome di “repubblica islamica dell’Iran”, senza una ripresa in grande dell’attività rivoluzionaria del proletariato iraniano, e senza la riformazione (in essa) di un forte nucleo di marxisti rivoluzionari. Ed è esattamente per questa ragione, per la dinamica di dislocazione di questi scontri che sta avvicinandosi sempre più al cuore del proletariato iraniano, che torniamo a parlare di Iran.
  4. Quanto, infine, al cinismo che la Afary coglie nei “progressisti” e nei “socialisti” occidentali che attribuiscono una funzione “anti-imperialista” all’Iran e mantengono la bocca cucita sulle lotte operaie e le proteste sociali in corso in quel paese per non disturbare i manovratori di Teheran, come darle torto? Ma tale cinismo è solo l’attitudine morale che corrisponde ad una totale mancanza di senso di classe. L’anti-americanismo che accomuna tutta questa gente non è altro che una forma di nazionalismo: gli va bene tutto ciò che attenua l’influenza di Wall Street e del Pentagono sulla “propria” nazione, sul “proprio” paese, cioè sul “proprio” capitalismo. Importa zero ciò che i capitalismi, gli stati e i governi anti-americani fanno ai “propri” proletari. Chi, con pretesi argomenti “anti-imperialisti”, sostiene in Occidente la “repubblica islamica”, è fuori dall’internazionalismo proletario. E ai compagni che si mantengono in rigoroso silenzio davanti a lotte come quelle in corso in Iran e in altri paesi di vero o presunto schieramento anti-americano, diciamo: sveglia! Voi da che parte state?

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L’Iran sta vivendo un’altra ondata di proteste e scioperi di massa perché i problemi economici, sociali, politici, ambientali e sanitari rendono impossibile alla grande maggioranza della popolazione disporre del minimo indispensabile per vivere.

Scioperi nel settore petrolchimico, proteste contro la mancanza di acqua

Il 15 luglio è iniziata una nuova ondata di proteste di massa per la grave carenza di acqua nella provincia a prevalenza etnica araba del Khuzestan. Le principali parole d’ordine dei manifestanti erano: “Abbasso la dittatura”, “Abbasso Khamenei”, “Non vogliamo una Repubblica Islamica”, “Il popolo vuole la caduta del regime”. Le forze di sicurezza del governo hanno sparato e ucciso almeno 8 manifestanti e ne hanno ferito e arrestati molti altri. Nonostante questo, sono iniziate proteste di solidarietà in Azerbaijan, Kurdistan, a Isfahan, nel Sistan, nel Baluchistan e a Teheran. Registi, insegnanti e gruppi di scrittori iraniani hanno firmato una dichiarazione congiunta a sostegno delle proteste. (https://iranwire.com/en/features/9985)

In una dichiarazione di solidarietà del sindacato dei lavoratori degli autobus di Teheran si afferma: “La mancanza di acqua oggi in Khuzestan è dovuta alle politiche incompetenti, rapaci e incentrate sul profitto dei precedenti decenni del capitalismo nell’estrazione del petrolio e nell’uso dell’acqua per l’industria dell’acciaio, i cui proventi non vanno alla popolazione. Queste politiche insaziabili hanno privato la popolazione del Khuzestan di acqua potabile. La distribuzione d’acqua viene sospesa per molte ore e fatta mancare per i bisogni primari. Anche gli agricoltori e gli allevatori sono stati danneggiati, perdendo i loro mezzi di sussistenza”.

(https://www.akhbar-rooz.com/%d8%b3%d9%86%d8%af%db%8c%da%a9%d8%a7%db%8c-%d8%b4%d8%b1%da%a9%d8%aa-%d9%88%d8%a7%d8%ad%d8%af-%d8%b3%d8%b1%da%a9%d9%88%d8%a8-%d9%88-%da%a9%d8%b4%d8%aa%d8%a7%d8%b1-%d9%85%d8%b1%d8%af%d9%85-%d8%ac%d8%a7/)

Le ultime proteste seguono una serie di scioperi a livello nazionale dei lavoratori a contratto a tempo determinato nell’industria iraniana del petrolio e del gas, che è anche fortemente basata nel Khuzestan. Gli scioperi, che sono iniziati il 19 giugno e si sono estesi ad un centinaio di siti di produzione, chiedono contratti a tempo indeterminato, un salario mensile di circa 500 dollari, condizioni di lavoro sicure e il diritto di organizzarsi e di non essere sotto il controllo della polizia. I lavoratori della canna da zucchero di Haft Tapeh in sciopero nel Khuzestan chiedono anche la vaccinazione anti-COVID ed esprimono solidarietà con le proteste contro la mancanza d’acqua.

Crisi economica e pandemia di COVID

L’Iran continua a soffrire di una grave crisi economica causata dal costo dei suoi interventi imperialisti regionali in Siria, Iraq, Libano, Yemen, dai programmi nucleari e missilistici e dagli effetti delle sanzioni economiche statunitensi. Il salario minimo ufficiale è di circa 120 dollari al mese in un paese in cui il costo dei beni di prima necessità per una famiglia di 4 persone è di 500 dollari al mese. L’elettricità viene interrotta per diverse ore ogni giorno. L’accesso a internet sta diventando sempre più limitato o impossibile per molti a causa del costo e della repressione del governo.

In questa situazione, la pandemia di Covid sta devastando la popolazione. La variante Delta del Covid continua a diffondersi ampiamente. Più del 95% della popolazione non è vaccinata, e non ha accesso a nessun vaccino, tanto meno a quelli sicuri. (https://graphics.reuters.com/world-coronavirus-tracker-and-maps/countries-and-territories/iran/) Il numero ufficiale di morti è di circa 88.000, ma i numeri reali sono molto più alti. (https://www.cnn.com/interactive/2020/health/coronavirus-maps-and-cases/) Gran parte della popolazione di 83 milioni è stata contagiata. Ma non esistono dati precisi a causa della repressione del governo.

Il Covid si sta diffondendo rapidamente nelle prigioni iraniane, che hanno una popolazione ufficiale di 190.000 detenuti. Anche le prigioniere donne soffrono e muoiono di Covid. Tra loro giornaliste, insegnanti, attiviste femministe e del lavoro, studentesse, ambientaliste, attiviste curde e arabe dei diritti civili, come pure donne Baha’i e Sufi.

Donne prigioniere e rifugiati afgani

Nasrin Sotoudeh, avvocato femminista per i diritti umani e difensore della “ragazze della via della rivoluzione” imprigionata, ha diversi problemi di salute oltre il Covid. Narges Mohammadi, attivista femminista contro la pena di morte, che è stata candidata al premio Nobel per la pace, è stata rilasciata l’anno scorso dopo una lunga pena detentiva, solo per essere di nuovo condannata al carcere e a 80 frustate per aver continuato ad opporsi alla pena di morte e “aver messo in pericolo la sicurezza nazionale”. Si è battuta contro questa sentenza e ha partecipato a manifestazioni di solidarietà con il popolo del Khuzestan, con i lavoratori in sciopero e con le famiglie dei prigionieri politici. In una recente intervista, ha definito le lotte delle donne iraniane “il tallone d’Achille del regime iraniano”. (https://www.facebook.com/voicesofwomenforchange/videos/241864884051720)

Sepideh Gholyan, attivista femminista del lavoro, incarcerata in Khuzestan, continua a scrivere sulla situazione delle donne prigioniere di etnia araba. È stata selvaggiamente picchiata in prigione e ora è in sciopero della fame.

Gli immigrati e i rifugiati afgani, che in Iran sono circa 3 milioni, continuano ad essere espulsi (in 450.000 sono stati espulsi dal 2020). Il regime iraniano ha organizzato negoziati tra i talebani e il governo afghano sotto la direzione del ministro degli esteri iraniano, Javad Zarif (https://www.radiozamaneh.com/676068/) e sta aiutando i talebani a rafforzare il loro potere, anche se i talebani hanno ucciso membri della popolazione sciita Hazara in Afghanistan. (https://www.washingtonpost.com/world/asia_pacific/afghanistan-hazara-taliban/2021/06/30/fae16a60-d815-11eb-8c87-ad6f27918c78_story.html)

Le persistenti ambizioni regionali dell’Iran e le “soluzioni” dell’imperialismo statunitense

In questo contesto di crisi e proteste, il governo iraniano prosegue i suoi interventi imperialisti regionali in Siria, Iraq e Libano. Sostiene le sue trame per rapire e assassinare gli attivisti dell’opposizione in esilio. (https://iranhumanrights.org/2021/07/foiled-kidnapping-of-dissident-part-of-irans-ramped-up-campaign-to-crush-dissent/) Continua a sviluppare i programmi nucleari e missilistici e ha interrotto il negoziato con l’amministrazione statunitense Biden sul ritorno all’accordo nucleare JCPOA.

L'”elezione” di Ebrahim Raisi a prossimo presidente dell’Iran ha avuto il più basso tasso di partecipazione di massa anche per gli standard iraniani, che erano già molto bassi. Raisi è stato in precedenza a capo della magistratura iraniana e, subito prima, del GHORB, il conglomerato immobiliare del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche (IRGC). È tristemente noto come membro della “Commissione della morte” che ordinò le esecuzioni di migliaia di prigionieri politici nel 1988. Sotto il suo controllo, circa 1500 persone sono state uccise dalle forze governative durante la rivolta del novembre 2019. (https://www.reuters.com/article/us-iran-protests-specialreport/special-report-irans-leader-ordered-crackdown-on-unrest-do-whatever-it-takes-to-end-it-idUSKBN1YR0QR) Amnesty International lo ha condannato per aver commesso crimini contro l’umanità (https://www.amnesty.org/en/latest/news/2021/06/iran-ebrahim-raisi-must-be-investigated-for-crimes-against-humanity/)

L’editorialista statunitense del New York Times Thomas Friedman rivela tutta la sua disumanità imperialista nella sua recente rubrica sull’Iran dove offre una “soluzione” che è “il meglio che si possa sperare con l’Iran.” (https://www.nytimes.com/2021/06/15/opinion/iran-biden-nuclear-deal.html?searchResultPosition=1) Egli sostiene che gli Stati Uniti, con l’aiuto degli stati del Golfo, dovrebbero dare maggiori aiuti finanziari al regime di Assad per cacciare l’Iran dalla Siria, mantenere la Russia e la Turchia quali potenze dominanti e assicurare la continuazione del regime di Assad. Questo, secondo lui, ridurrebbe il pericolo iraniano e potrebbe soddisfare Stati Uniti e Israele. Per lui, i popoli della regione, gli arabi e i curdi siriani e la popolazione iraniana, sono semplici pedine sulla scacchiera imperialista statunitense e globale.

Necessaria solidarietà progressista con le lotte all’interno dell’Iran

Non meno cinici sono quella sinistra e i cosiddetti socialisti di tutto il mondo che sostengono il regime iraniano come “anti-imperialista” o si rifiutano di criticarlo.

Coloro che limitano la loro solidarietà a chiedere la revoca delle sanzioni statunitensi, rifiutano di riconoscere la complessità dei problemi in Iran. Non tengono conto del fatto che questi problemi sono riconducibili sia all’imperialismo estero di Stati Uniti, Russia, Cina, che al militarismo capitalista all’interno e al fondamentalismo religioso.

Qualsiasi volontà di impegnarsi offrendo solidarietà con le lotte in Iran comincia non solo con la richiesta di revoca delle sanzioni statunitensi e la fine degli attacchi di Israele, ma anche con il ritenere il regime iraniano responsabile della repressione e dello sfruttamento della popolazione e dell’ambiente della regione. Riconoscerlo significa chiedere l’immediato rilascio dei prigionieri politici, esprimere solidarietà con i lavoratori in sciopero, le lotte delle donne e per l’ambiente, con le minoranze etniche sessuali e religiose, e infine chiedere il ritiro dell’Iran da Siria e Irak e la fine degli interventi in Afghanistan, Libano e Yemen.

25 luglio 2021

Iranian Progressives.org 210725

Iran: A New Wave of Mass Protests and Strikes

Iran is experiencing another wave of mass protests and strikes as economic, social, political, environmental and health problems make it impossible for the large majority of the population to have the bare minimums needed to live.

Petrochemical Strikes, Protests Against Water Shortage

A new wave of mass protests over severe water shortage in the mainly ethnic Arab province of Khuseztan began on July 15. Protesters’ slogans have included: “Down with Dictatorship.”, “Down With Khamenei”, “We Don’t Want An Islamic Republic”, “The People Want the Regime to Fall.” Government security forces have shot and killed at least 8 protesters and injured and arrested many others. However, solidarity protests have started in Azarbaijan, Kurdistan, Isfahan, Sistan & Baluchistan and Tehran. Iranian filmmakers, teachers and writers’ groups have co-signed a joint statement in support of the protests. (https://iranwire.com/en/features/9985)

In the words of a statement of solidarity by the Tehran Bus Workers’ Syndicate: “The lack of water in Khuzestan today is rooted in the unprofessional, rapacious and profit-centered policies of the prior decades of capitalism in oil extraction and use of water for the steel industry, the income from which does not go to the people. These insatiable policies have deprived the people of Khuzestan of safe drinking water. Water is shut off for long hours and it is lacking for basic needs. Farmers and cattle growers have also been damaged and lost their livelihoods.” (https://www.akhbar-rooz.com/%d8%b3%d9%86%d8%af%db%8c%da%a9%d8%a7%db%8c-%d8%b4%d8%b1%da%a9%d8%aa-%d9%88%d8%a7%d8%ad%d8%af-%d8%b3%d8%b1%da%a9%d9%88%d8%a8-%d9%88-%da%a9%d8%b4%d8%aa%d8%a7%d8%b1-%d9%85%d8%b1%d8%af%d9%85-%d8%ac%d8%a7/)

The latest protests have followed a series of nationwide strikes of temporary contract workers in Iran’s oil and gas industry which is also heavily based in Khuzestan. The strikes which began on June 19 and have spread to a hundred production sites, are demanding permanent employment status, a $500 monthly wage, safe working conditions and the right to organize and be free of police surveillance. Haft Tapeh sugar cane workers on strike in Khuzestan are also asking for COVID vaccination and expressing solidarity with protests against the lack of water.

Economic Crisis and COVID Pandemic

Iran continues to suffer from a massive economic crisis brought about by the costs of its regional imperialist interventions in Syria, Iraq, Lebanon, Yemen, its nuclear and missile programs and the effects of U.S. economic sanctions. The official minimum wage is approximately $120 per month in a country where the cost of bare necessities for a family of 4 is $500 per month. Electricity is shut off for several hours on a daily basis. Access to the internet is becoming more limited or impossible for many because of the cost and government repression.

In this situation the COVID pandemic has been wreaking havoc on the population. The Delta variant of COVID continues to spread widely. Over 95% of the population is not vaccinated and has no access to any vaccines, much less safe ones. (https://graphics.reuters.com/world-coronavirus-tracker-and-maps/countries-and-territories/iran/) The official number of deaths is approximately 88,000, but the real numbers are much higher. (https://www.cnn.com/interactive/2020/health/coronavirus-maps-and-cases/ ) A large part of the population of 83 million has been infected. However, no accurate figures exist because of government repression.

COVID is spreading rapidly in Iran’s prisons, which have an official population of 190,000. Women prisoners are also suffering from and dying from COVID. They include journalists, teachers, feminist and labor activists, students, environmentalists, Kurdish and Arab civil right activists, as well as Baha’i and Sufi women.

Women Prisoners and Afghan Refugees

Nasrin Sotoudeh, imprisoned feminist human rights attorney and defender of the “Girls of Revolution Avenue” is suffering from a variety of health problems in addition to COVID. Narges Mohammadi, feminist activist against the death penalty who has been nominated for the Nobel Peace Prize, was released last year after a long prison sentence, only to receive another prison sentence which also includes 80 lashes for continuing to oppose the death penalty and “endangering national security.” She has been fighting this sentence, and has attended protests in solidarity with the people of Khuzestan, striking workers and the families of political prisoners. In a recent interview, she called Iranian women’s struggles “the Achilles heel of the Iranian regime”. (https://www.facebook.com/voicesofwomenforchange/videos/241864884051720) Sepideh Gholyan, feminist labor activist, imprisoned in Khuzestan, continues to write about the plight of ethnic Arab women prisoners. She has been savagely beaten in prison and is now on hunger strike.

Afghan migrants and refugees who number approximately 3 million in Iran continue to be expelled (450,000 expelled since 2020). The Iranian regime has been holding negotiations between Taliban and the Afghan government under the direction of Iranian foreign minister, Javad Zarif (https://www.radiozamaneh.com/676068/) and is helping the Taliban strengthen their power even though the Taliban have been killing members of the Shi’a Hazara population in Afghanistan. (https://www.washingtonpost.com/world/asia_pacific/afghanistan-hazara-taliban/2021/06/30/fae16a60-d815-11eb-8c87-ad6f27918c78_story.html)

Iran’s Continuing Regional Ambitions and U.S. Imperialism’s “Solutions”

In the midst of all these crises and protests, the Iranian government maintains its regional imperialist interventions in Syria, Iraq, and Lebanon. It promotes its plots to kidnap and assassinate opposition activists in exile. (https://iranhumanrights.org/2021/07/foiled-kidnapping-of-dissident-part-of-irans-ramped-up-campaign-to-crush-dissent/) It continues to develop its nuclear and missile programs and has stopped its negotiation with the U.S. Biden administration on returning to the JCPOA nuclear agreement.

The “election” of Ebrahim Raisi as Iran’s next president had the lowest rate of mass participation even by Iran’s standards which were very low to begin with. Raisi was previously the head of Iran’s judiciary and immediately prior to that, the head of GHORB, the construction conglomerate of the Islamic Revolutionary Guard Corps (IRGC). He is infamously known as a member of the “Death Commission” which ordered the executions of thousands of political prisoners in 1988. Under his watch, approximately 1500 people were killed by government forces during the November 2019 uprising. (https://www.reuters.com/article/us-iran-protests-specialreport/special-report-irans-leader-ordered-crackdown-on-unrest-do-whatever-it-takes-to-end-it-idUSKBN1YR0QR) Amnesty International has condemned him for committing crimes against humanity (https://www.amnesty.org/en/latest/news/2021/06/iran-ebrahim-raisi-must-be-investigated-for-crimes-against-humanity/)

U.S. New York Times columnist, Thomas Friedman reveals imperialist inhumanity in his recent column on Iran where he offers a “solution” that is “the best anyone can hope for with Iran.” (https://www.nytimes.com/2021/06/15/opinion/iran-biden-nuclear-deal.html?searchResultPosition=1) He argues that the U.S. with the help of Gulf states should give more financial aid to the Assad regime to kick Iran out of Syria, maintain Russia and Turkey as dominant powers and assure the continuation of the Assad regime. This he says would reduce Iran’s danger and satisfy the U.S. and Israel. To him, the people of the region, the Syrian Arabs and Kurds and the Iranian population, are mere pawns on the U.S. and global Imperialist chessboard.

Needed Progressive Solidarity with Struggles inside Iran

No less cynical are those leftists and so-called socialists around the world who support the Iranian regime as “anti-imperialist” or refuse to criticize it.

Those who limit their solidarity to calling for the removal of U.S. sanctions, refuse to recognize the complexity of the problems in Iran. They do not address the fact that these problems are rooted both in the external imperialism of the U.S., Russia, China and internal capitalist militarism and religious fundamentalism.

Any effort to engage in solidarity with the struggles inside Iran begins not only with calling for the removal of U.S. sanctions and an end to Israel’s attacks, but also simultaneously holding the Iranian regime accountable for its repression and exploitation of the people and environment of the region. That recognition demands calling for the immediate release of political prisoners, expressing solidarity with striking workers, feminist and environmental struggles, oppressed ethnic, sexual and religious minorities, and demanding Iran’s withdrawal from Syria, Iraq and an end to its interventions in Afghanistan, Lebanon and Yemen.

July 25, 2021

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In cammino verso lo sciopero generale contro il padronato, il governo Draghi, l’Unione europea – Assemblea nazionale a Bologna, domenica 11 luglio – SI Cobas

Come è scritto nel documento della Tendenza internazionalista rivoluzionaria, è del tutto evidente che il governo Draghi, approfittando del calo dei contagi e della propaganda di regime sulla ripresa (dei profitti) e sull’utilizzo dei fondi europei, sta accelerando il suo attacco all’insieme della classe lavoratrice.

L’ultima messinscena consumata ieri (29 giugno) a Roma con l’intesa tra governo, Confindustria e Cgil-Cisl-Uil, che prevede la raccomandazione alle imprese di ricorrere – prima di licenziare – alla cassa integrazione gratis, pagata per gran parte dalla stessa classe lavoratrice attraverso la fiscalità generale, costituisce l’ultimo via libera all’attacco del governo Draghi, che ha dato un contentino formale a Landini&Co. in cambio di un’ulteriore subordinazione reale delle burocrazie sindacali allo sblocco dei licenziamenti.

In questo quadro, sull’onda della settimana di forti mobilitazioni seguite allo sciopero della logistica del 18 giugno e all’assassinio di Adil Belakhdim, e mentre avviene un nuovo tentato omicidio contro un picchetto operaio ai cancelli della Miliardo Yida di Pontecurone (Alessandria), acquista ulteriore importanza la preparazione (per l’autunno) di un grande sciopero generale contro il padronato, il governo Draghi, l’Unione europea, delineata in questo testo che il SI Cobas ha proposto alle diverse componenti del sindacalismo “di base” e all’opposizione in Cgil. E che ha ricevuto ieri (29 giugno), in una riunione tenutasi a Roma, a cui hanno partecipato delegazioni dell’USB, dell’AdlCobas, dell’SGB, della CUB, dell’area Riconquistiamo Tutto – Opposizione CGIL, dell’USI, una prima risposta positiva.

L’assemblea di Bologna di domenica 11 luglio dovrà essere un passaggio utile, serrato e costruttivo in questa direzione, che la nostra Tendenza preconizza da anni. Pensare in grande, vincendo il particolarismo e lo spirito minoritario, rivolgerci alla massa del proletariato industriale e delle lavoratrici e dei lavoratori salariati, ai movimenti sociali nati sulle contraddizioni di genere, di razza, ecologiche irrisolvibili dal capitalismo, in una prospettiva internazionalista rivoluzionaria: è questa la consegna del momento.

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Invito a un’Assemblea nazionale in presenza – domenica 11 luglio a Bologna contro i licenziamenti, per fermare la violenza contro gli scioperi, per preparare un forte SCIOPERO GENERALE contro il padronato, il governo Draghi, l’Unione europea

Le intense giornate di sciopero e di mobilitazione di piazza di venerdì 18 e sabato 19 giugno, l’immediata, larga reazione all’assassinio del nostro compagno Adil Belakhdim, hanno dato ulteriore slancio alla proposta di arrivare, nei tempi necessari, ad un grande sciopero generale contro i licenziamenti, contro la repressione, contro Confindustria e il governo Draghi – una proposta già avanzata dall’Assemblea delle lavoratrici e dei lavoratori combattivi e da altri consessi.

La forza propulsiva di questa iniziativa viene dalle realtà operaie e proletarie in lotta, grandi e piccole, in primo luogo dalle lotte della logistica e dei trasporti. E l’abbiamo vista positivamente in azione nei giorni scorsi nello sciopero del 18 giugno, diventato lo sciopero dell’intero sindacalismo di base (Usb, Adl, Cub e Slai Cobas – una cosa del genere non accadeva da anni), proprio sotto la spinta della strenua resistenza dei licenziati FedEx di Piacenza e dei lavoratori TNT-FedEX organizzati con noi. Dopo l’uccisione di Adil e le aggressioni di stampo mafioso/squadristico ordite da FedEx-Zampieri a san Giuliano Milanese e Tavazzano, avvenute tutte sotto la protezione delle “forze dell’ordine”, dopo una sequenza di azioni repressive ad esse paragonabili (compiute anche dalla magistratura), l’organizzazione dello sciopero generale ha assunto anche un evidente significato di denuncia del ruolo svolto dal governo Draghi nel processo di strisciante messa fuori legge dello sciopero – in modo sostanziale o, nella logistica, in modo formale con il ricorso all’art. 146.

Su impulso di queste e altre lotte proletarie (nei porti e all’Alitalia ad esempio), e territoriali (con la ripresa della mobilitazione del movimento No Tav e le proteste per il diritto all’abitare), possiamo puntare ad allargare il perimetro della preparazione dello sciopero generale molto al di là del settore logistica e trasporti. Oltre a coinvolgere la più vasta area possibile del sindacalismo “di base”, l’organizzazione di questo sciopero dovrà raggiungere i tanti/e iscritti ai sindacati confederali sconcertati e scontenti per la politica di subordinazione ai padroni e al governo di Cgil-Cisl-Uil, e i tantissimi/e giovani senza sindacato, precari, disoccupati. A consentirlo sono proprio gli attacchi in gestazione dell’asse padronato/governo, per quanto Draghi&Co. stiano facendo un’incredibile demagogia sulla “ripartenza” – mentre già ci sono i segni sanitari, economici e politici che la mettono in discussione.

Nell’assemblea dell’11 luglio dovremo affrontare di petto le questioni che il padronato e il governo Draghi hanno messo all’odg per i prossimi mesi: i licenziamenti di massa dei tempi indeterminati, l’attacco al diritto di sciopero e – più in generale – la sistematica repressione delle lotte, la liberalizzazione degli appalti e dei sub-appalti, la riforma degli ammortizzatori sociali, l’assegno unico familiare, il contratto di scivolamento, lo “smart working” e la didattica a distanza, l’impatto sull’intensificazione dello sfruttamento del lavoro e la riduzione dei posti di lavoro dell’“industria 4.0”. Dovremo nello stesso tempo denunciare che l’attenuazione della pandemia sta servendo non a mettere in discussione le politiche di smantellamento della sanità pubblica e territoriale, ma al contrario all’ulteriore espansione della sanità privata e della commercializzazione del bene-salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro.

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Giù le vostre zampe da Adil, gente senza pudore! – g. g.

La morte di Adil Belakhdim è omicidio padronale e governativo. Mentre il capo del governo ed i politici parlamentari che ne stanno parlando in queste ore sono… senza pudore!

Alla fine ci sono arrivati: dopo mesi di provocazioni, agguati, spedizioni squadristiche, cariche ai picchetti, arresti, denunce, fogli di via, intimidazioni, ferimenti di lavoratori, si è cercato e trovato il morto. A rimettere la vita per la causa comune dell’emancipazione dei lavoratori è Adil Belakhdim, 37 anni, originario del Marocco, coordinatore provinciale del SiCobas di Novara, schiacciato da un camion che voleva “forzare” il presidio operaio durante lo sciopero generale della Logistica.

Prima di lui altri lavoratori immigrati hanno lasciato la vita davanti ai cancelli dei lager-magazzini, nella schiavitù dei campi, nelle baracche fatiscenti adibite ad “abitazioni”; o semplicemente in mare, oppure ancora per strada: vittime dell’odio fomentato da questo sistema di sfruttamento.

Nella Logistica, che ora tutti improvvisamente “scoprono”, sono anni che il SiCobas ed altre realtà di sindacalismo “conflittuale” denunciano e combattono una realtà vomitevole di supersfruttamento, caporalato, intimidazione, illegalità, di aggiramento delle leggi e dei contratti di lavoro. Quella “legalità” che ora i portavoce della politica padronale vorrebbero “ripristinare”, e che gli stessi sindacalisti delle Confederazioni – ora fulminati sulla via di Damasco – si sono ben guardati dal difendere seriamente. Non scordiamoci mai che fino ad ieri i vertici confederali additavano alla giusta e sacrosanta lotta del SiCobas la responsabilità delle “tensioni” nei magazzini della Logistica, cercando così di mascherare la loro collusione coi padroni e col potere politico: nazionale e locale.

E ora? Ora che Adil è stato ammazzato da questa logica capitalista de “la produzione dei profitti prima di tutto e sopra a tutto”, ora che la direttiva padronale e governativa della “ripresa ad ogni costo” ha fatto la sua ultima vittima, ora che cosa vengono a dirci i governanti in merito ai fatti di Novara?

Cosa hanno da dirci dopo che a Novara si è “chiuso” il cerchio degli ultimi mesi iniziato a S. Giuliano Milanese e continuato poi a Lodi ed a Prato?

Draghi (Presidente del Consiglio): “Sono molto addolorato… Fare luce sull’accaduto.”

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Assassinato il coordinatore SI Cobas di Novara, Adil Belakhdim, mentre era al picchetto dello sciopero – un crimine collettivo dei padroni e del governo Draghi – TIR

Stamattina, durante lo sciopero alla Lidl di Biandrate, un camionista ha forzato il picchetto dei lavoratori in sciopero, travolgendo e schiacciando sotto le ruote del camion Adil Belakdim, il coordinatore SI Cobas di Novara.

Criminale è stato il comportamento del camionista, come lo fu quello del camionista che travolse anni fa a Piacenza, in circostanze del tutto simili, Abd Elsalam Ahmed Eldanf, un lavoratore dell’Usb.

Sarebbe troppo facile, però, attribuire ad un singolo la colpa di questo assassinio.

L’uccisione di Adil Belakdim è un crimine collettivo che chiama in causa direttamente il padronato della logistica, con FedEx in testa, il padronato intero, il governo Draghi.

Il padronato della logistica perché, con FedEx alla sua testa nel ruolo che fu della Fiat/FCA di Marchionne, appare intenzionato a sferrare un attacco frontale a quel proletariato immigrato della logistica che in un ciclo di lotte durato un decennio, di cui il SI Cobas è stato protagonista di prima fila, ha saputo infliggere colpi importanti (benché non definitivi) al sistema mafioso degli appalti e dei sub-appalti, conquistando livelli di salario, orari, libertà di organizzazione sui posti di lavoro a lungo negata, rispetto della propria dignità – un sistema mafioso, che è l’arma attraverso cui le imprese multinazionali super-sfruttano il lavoro operaio (non solo della logistica, pensiamo a Fincantieri, primatista mondiale nell’uso dei sub-appalti), imponendo livelli di precarietà, di intensità del lavoro, di orari, talmente devastanti che nell’arco di 10-15 anni logorano e spezzano i muscoli e i corpi di tanti lavoratori, per paghe che sono state spesso, fino a ieri, al di sotto dei livelli di sussistenza.

Questo padronato, con la statunitense FedEx in testa, che è all’opera da tempo per costruire e mettere in azione contro gli scioperi operai le proprie squadracce private, ha le mani sporche di sangue.

Ma non si tratta solo del padronato della logistica.

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Non siamo forti quando parlano di noi; parlano di noi quando siamo forti – p. d’A.

Logico (logica di classe, politica prima ancora che sindacale), dialettico, pungente (in più direzioni).

NON SIAMO FORTI QUANDO PARLANO DI NOI:

PARLANO DI NOI QUANDO SIAMO FORTI!

Il richiamo mediatico sull’aggressione armata avvenuta la notte di giovedì 10 giugno a Tavazzano contro il SI Cobas è un fatto senz’altro anomalo.

Chi conosce anche solo in maniera sommaria la storia del SI Cobas e, più in generale, delle lotte che negli ultimi 12 anni hanno attraversato il settore della logistica, sa bene che non è la prima volta che gli scioperi vengono attaccati da gruppi di crumiri, sa bene che non di rado i camion provano a forzare i picchetti col rischio che ci scappi il morto (come dimenticare Abd El Salaam travolto alcuni anni fa da un bilico che lo uccise fuori ai cancelli della GLS?), sa bene che i sindacalisti che lottano al fianco dei lavoratori sono esposti a minacce, a rappresaglie e ad agguati da parte delle squadracce padronali. Per non parlare dei veri e propri assedi da parte delle forze dell’ordine contro gli scioperanti (vedi il caso più recente alla Ceva, dove gli operai hanno resistito a cariche violentissime e alla fine, proprio in queste ore, hanno vinto, strappando un buono pasto giornaliero di 5,29 €).

La verità è che nella logistica da 13 anni è in atto una GUERRA quotidiana tra padroni e operai: una guerra senza esclusione di colpi, che si sviluppa nel quasi totale silenzio dei media, e ciò per vari motivi:

A- si tratta di battaglie che si sviluppano ai margini dei riflettori metropolitani, in quell’estrema periferia fatta di centri produttivi e industriali che, di pari passo con la crisi del vecchio movimento operaio e con la ristrutturazione capitalistica, hanno assunto un ruolo sempre più centrale nell’economia ma che, almeno fino al boom di Amazon, non erano percepite come tali dai media e dall’opinione pubblica; 

B- si tratta di battaglie che per la prima volta dopo decenni hanno portato un miglioramento reale nelle condizioni di vita e salariali di migliaia di operai, e che per questo sono state silenziate e censurate da parte dei media legati al grande capitale, il quale da sempre è impegnato a circoscrivere il più possibile le vittorie dei lavoratori al fine di evitare che le proteste si allarghino a macchia d’olio, contaminando anche quelle categorie che da decenni sono in letargo e subiscono passivamente ogni sopruso padronale;

C- si tratta di battaglie che vedono in campo una classe operaia giovane e in larga parte immigrata, e in cui i lavoratori immigrati dimostrano di essere non solo uno dei perni principali della creazione di ricchezza (cioè di plusvalore e di profitti), ma anche una avanguardia capace di indicare la strada del riscatto a milioni di loro colleghi italiani. Una dinamica che smentisce clamorosamebte i cliché e i luoghi comuni alimentati dalla stampa e dalla TV, tesi a presentare gli immigrati come dei disperati e/o dei reietti giunti sui nostri territori unicamente per ricevere assistenza (leggi elemosina), e quindi ad alimentare la finta dicotomia tra “buonisti” e “sovranisti” su cui oramai da anni si costruiscono le fortune e le sfortune elettorali dell’intero arco parlamentare.

Dopo 12 anni di lotte durissime, i fatti di Tavazzano, gravissimi per l’intensità dell’attacco armato sferrato ai lavoratori in sciopero ma qualitativamente non dissimili da decine, o forse centinaia di casi analoghi, ha finalmente aperto il sipario sulle condizioni di semischiavitù che vigono nella logistica (e non solo), sul caporalato delle finte cooperative e sul connubio tra padroni, criminalità organizzata, forze di polizia e sindacati asserviti.

La potenza d’impatto del video pubblicato sulla pagina facebook del SI Cobas ha messo in moto l’attenzione dei media: come oramai avviene da qualche decennio in quella che Debord definì la “società dello spettacolo”, i fatti divengono scoop giornalistici solo se supportati dall’ausilio delle immagini, immortalate al posto giusto nel momento giusto…

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