Il favoloso mondo della Brexit, 2. Militarismo, militarismo, folle e sanguinario militarismo

Il succo del discorso della Truss è nell’attacco alla politica di Merkel e UE verso la Russia, da gettare alle ortiche subito per imbracciare una politica “assertiva” fatta di attacchi senza tregua al “barbaro” nemico, puntando al suo annientamento.

Uno degli argomenti forti dei piazzisti britannici della Brexit (e dei loro replicanti di destra e di sinistra italiani) è stato e rimane il recupero di sovranità economica e politica. Liberata dai vincoli di Bruxelles, Londra avrebbe, più o meno in breve, riconquistato il vecchio statuto di “regina degli oceani e intraprendente conquistatrice di mercati lontani”.

Noi formulammo, invece, tutt’altra previsione. Data l’asprezza del livello di scontro inter-capitalistico e inter-imperialistico esistente, a crisi irrisolta, sul mercato mondiale, non poteva esserci alle viste, per la Gran Bretagna, nessun “recupero di sovranità nazionale”, semmai il contrario. E così è stato.

Dopo la Brexit, la pretesa dei gangster statunitensi di dettare legge nella loro riserva britannica si è fatta più arrogante che mai in tutti i campi, fino al punto da spingere “The Guardian” a ridicolizzare Johnson come “il barboncino di Trump”. Né le cose sono cambiate con Biden. La Gran Bretagna attende ancora segnali di fumo per quel trattato commerciale speciale con gli Usa a cui aspira, e che è assai difficile che arrivi, almeno fino al “giorno in cui l’Inghilterra busserà ancora una volta alla porta dell’Europa” (questa la pungente considerazione di Sergio Romano).

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Il favoloso mondo della Brexit, 1. Crescono povertà e fame

Se la retorica europeista è completamente falsa, non per questo diventa vera la promessa dei promotori di Brexit o Italexit: rompiamo la gabbia dell’UE e dell’euro e ci si spalancherà dinanzi l’Eden attraverso il recupero della “sovranità nazionale”. Questo per una semplice ragione: uscire dall’UE e dall’euro non significa in alcun modo uscire dal mercato mondiale, sottrarsi alla dittatura spietata del capitale globale e dei suoi centri di potere.

Ricordate? No? Dai, non vi dice proprio nulla la parola Brexit? Possibile? Eppure non accadde un secolo fa. Non è trascorso neppure un decennio. Solo una spicciolata di anni. Diciamo 2017-2018. Allora la Brexit venne assunta a modello, da destra e da sinistra, come soluzione di tutti problemi creati dalla “dittatura dell’euro” (non era ancora subentrata la “dittatura sanitaria”). Gli Italexit, dai più sfacciati mascalzoni ai più pensosi e presentabili, inclusi un discreto numero di compagni, erano accomunati da un certezza: riconquistiamo la sovranità nazionale, ovvero la sovranità popolare, ovvero ancora la sovranità democratica (vattelappesca cosa volessero dire realmente, sembravano suonare bene), e si schiuderanno davanti a noi sentieri di rinascita. Per la nazione e anche per la classe lavoratrice. Ma la precondizione assoluta era uscire dall’euro e dalla UE, come con coraggio, sostenuto da settori di classe operaia, ha fatto il Regno Unito della May (e poi di Johnson).

Dopo la Brexit, si gridava e argomentava, urge l’Italexit. E si comincerà a ragionare. Di più: a sognare.

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Un 25 aprile senza tricolori, né retorica resistenziale. Testi da Napoli e da Bologna

Napoli, 25 aprile

Prima di venire con alcune nostre considerazioni sul 25 aprile, pubblichiamo qui di seguito, tra i materiali che ci sono pervenuti, due testi provenienti entrambi da ambienti proletari: il primo dal Movimento di lotta per il lavoro 7 novembre di Napoli, il secondo di un operaio metalmeccanico di Bologna iscritto al SI Cobas, con una militanza internazionalista alle spalle.

Senza stare ad analizzare, da pedanti, parola per parola e frase per frase i due testi, ciò che li distingue dalla quasi totalità delle prese di posizione e dei discorsi sentiti ieri è il sentimento di classe, l’ottica di classe, la prospettiva di classe che li pervade. Nei devastanti uragani in arrivo, per non essere squadernati e dispersi come fuscelli, servirà l’ancoraggio ferreo a questi chiodi ben infissi nella roccia. (Red.)

Dal Movimento di lotta per il lavoro 7 novembre (Napoli)

Ognuno interpreta la storia passata alla luce dei propri desideri e delle proprie speranze. E la data del 25 aprile ha assunto e assume un significato tale da superare, nella coscienza collettiva, la realtà di quell’evento e di quel momento storico.

E allora ben venga la festa, purché sia chiaro che si festeggia quello che poteva essere e non fu. Quello che sarebbe stato e non è stato. L’aspirazione verso la futura rivoluzione sociale, non la rituale ricorrenza di una rivoluzione politica che riaffermò, con equilibri mutati, il potere di una borghesia che è fascista o democratica, monarchica o repubblicana, a seconda delle esigenze del momento.

Non fu la vittoria, nemmeno una vittoria mutilata, fu una sconfitta. La sconfitta del proletariato rivoluzionario che aveva pagato il prezzo più alto negli anni della dittatura mussoliniana, che era stato mandato a morire in una guerra fra briganti, decimato dai bombardamenti, dalla fame, dalle malattie. Che aveva combattuto sulle montagne la SUA guerra di liberazione. Per non morire. Per non cedere alla barbarie di un mondo che crollava e che – quei proletari – li voleva condannati al ruolo di vittime sacrificali.

Quel mondo, il mondo dei rapaci “costruttori di odio” al servizio dei propri interessi economici, era pronto a usare anche la loro voglia di riscatto, i loro sogni, le loro speranze. Perfino ad armarli pur di averli alleati nella sua lotta mortale per la sopravvivenza.

Armarli di mitra e bombe a mano, purché fossero disarmati politicamente e ideologicamente. La borghesia ha una tradizione nell’uso del proletariato come massa di manovra al suo servizio. Lo ha fatto quando si è liberata dei retaggi feudali, lo ha continuato a fare nelle sue innumerevoli lotte “nazionali” per liberarsi dal giogo di quell’imperialismo che al momento la soffocava.

Funziona sempre così. Senza autonomia, senza scendere, subito, sul terreno della lotta di classe, senza porre sul campo la questione del potere operaio e dell’espropriazione dei capitalisti (compresi quelli nazionali “antimperialisti”), si finisce con essere massa di manovra usa e getta, truppe sacrificabili di una guerra i cui generali hanno già deciso compiti e limiti.

E le “resistenze”, le rivoluzioni nazionali, le lotte di popolo, finiscono SEMPRE per essere tappe, non di un fantomatico processo rivoluzionario, ma momenti di riequilibrio del potere della borghesia.

Al proletariato tocca la sorte poco invidiabile di mano d’opera a buon mercato, prima nella guerra di liberazione dove sui morti partigiani i nuovi padroni, liberatisi in fretta delle camice nere, ricostruirono il LORO Stato, poi nella ricostruzione post bellica dove, deposto il fucile, fu di nuovo facile massacrarli nella quotidiana guerra del profitto contro il lavoro.

Non poteva andare diversamente. L’orizzonte di quello che fu il Partito Comunista, che ha rappresentato l’ossatura di quella resistenza, era già da tempo limitato alla conquista di un compromesso accettabile sotto l’ombrello dell’imperialismo vincitore. La conquista della “democrazia” che avrebbe rese sostenibili le pretese del capitale e spuntate le pretese della classe operaia di costruire una società di liberi e di uguali.

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Il nazionalismo di Zelensky: un nazionalismo in affitto

Nel tripudio di odi a Zelensky e al nazionalismo ucraino, non poteva mancare quella di Tremonti, l’uomo dai pensieri brevi e profondi. Ed è arrivata infatti puntuale, sul Corriere della sera del 22 marzo, il giorno del suo comizio in parlamento. Secondo Tremonti il risorgente “senso della patria ucraina”, di cui Zelensky è portavoce a mass media occidentali unificati, esprime “un nuovissimo, anzi antichissimo tipo di eroismo, insieme nazionale ed europeo. Proprio come è stato due secoli fa al tempo dei risorgimenti europei”.

Falso. Anzi falsissimo.

Dalla a alla zeta.

Il nazionalismo di Zelensky è la reincarnazione (in certe immagini ostentata anche con il vecchio simbolo banderista sulla sua maglietta) di un nazionalismo in affitto che ha ben poco a che vedere con il nazionalismo ucraino storico mirante all’indipendenza nazionale, con la sua matrice contadina e il suo orizzonte slavo (non europeo né, tanto meno, NATO). A provarlo basta un rapido sguardo retrospettivo.

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L’Italexit, come la giri e la rigiri, è veleno nazionalista, di Fabio84

Il testo “Italexit: un passo avanti per i lavoratori o una pericolosa deviazione di percorso?”, scritto dalla Tendenza internazionalista rivoluzionaria, che abbiamo pubblicato su questo blog alcune settimane fa, è stato ripreso, tra gli altri, dal sito del SI Cobas, da Sinistra in rete, da Il pane e le rose.

L’articolo esaminava le posizioni dello statistico Domenico Moro, sostenitore dell’Italexit, che non ha risposto finora alle ficcanti critiche ricevute. Nel frattempo, però, è uscito un suo libro, Eurosovranità o democrazia? Perché uscire dall’euro è necessario, presentato su Sinistra in rete da un’intervista all’autore, che esplicita ancora meglio le sue posizioni. Un nostro lettore e simpatizzante, uno dei lavoratori combattivi presenti all’assemblea di Bologna del 27 settembre, ci ha inviato il seguente commento alle posizioni espresse in quella intervista da Moro, che volentieri pubblichiamo. Lo ha fatto precedere dalla frase: l’Italexit come programma politico, come la giri e la rigiri, è veleno nazionalista. Ben detto, compagno.

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«Il messaggio che D. Moro manda in questa intervista è semplice, e non si può equivocare: bisogna spezzare le catene dell’euro per ridare ossigeno al capitalismo nazionale, solo così ci potrà essere spazio per una politica sociale che non sia di austerità e per gli aumenti salariali. Questa è una maniera di ragionare da nazionalisti. E, secondo me, è anche un modo di ragionare infantile, perché non considera che siamo in una crisi del capitalismo mondiale che tanti giudicano epocale. Uscire dall’euro non può far uscire il capitalismo italiano dal mercato mondiale su cui infuria una concorrenza all’ultimo sangue. All’ultimo sangue operaio.

«Andate a leggere l’appello dei rosso-bruni per la manifestazione di sabato 10 ottobre a Roma, ci troverete una grande comunanza di temi. Metti le due piattaforme politiche l’una sull’altra, e quasi si baciano: la Costituzione del 1948 è la stella polare di tutte e due; l’Unione europea, e non la classe capitalistica italiana e lo stato italiano, è il nemico n. 1 per entrambe; l’uscita dall’euro, la riconquista della sovranità monetaria, la democrazia “sociale” sono gli obiettivi programmatici proposti in tutti e due i casi. Si tratta di nazionalismo. Un nazionalismo che Moro motiva con ragioni “sociali”. Ma anche Fusaro, Paragone, Grimaldi e personaggi del genere fanno la stessa cosa. Quelli che, come Moro, sostengono che “uscire dall’euro è necessario, ma non sufficiente”, tirano la volata a loro, ai rosso-bruni.»

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