Egitto: la protesta popolare torna nelle piazze

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Workers in Cairo holding a banner that reads, “Our unions = our freedom, it is not an investment.” (Reuters/Amr Abdallah Dalsh)

Nel luglio 2013 l’avvento al potere del generale al-Sisi sembrava mettere la parola fine, a tempo indeterminato, sull’Intifada egiziana. Un’ondata repressiva senza precedenti azzerava con un massacro le grandi manifestazioni di piazza, centinaia, se non migliaia di militanti costretti al silenzio, incarcerati, torturati, il quadro dirigente dei Fratelli mussulmani in carcere o in esilio, il movimento operaio apparentemente paralizzato. L’Egitto ritornava sui suoi abituali binari di paese amico dell’Occidente e totalmente dipendente dai prestiti del FMI, l’ultimo, in via di contrattazione, di 12 miliardi di dollari. Il generalissimo omaggiato, in sequenza, dal duo Mattarella-Renzi, da Putin e da Trump, a conferma fotografica di quella “santa alleanza” reazionaria da Obama/Trump fino ad Assad/Khamenei/Putin passando per Sisi e i monarchi del Golfo, che da soli (o quasi) denunciamo da anni come l’alleanza assassina delle grandi sollevazioni arabe del 2011-2012.

Dopo quattro anni, ecco gli effetti della politica di perenni sacrifici imposta dal governo: con una popolazione in crescita del 2,5% l’anno, che ha raggiunto i 92 milioni di abitanti, il livello di povertà (ufficiale) e’ al 35%, l’inflazione al 24,3%, il pound egiziano viene continuamente svalutato, il potere d’acquisto dei già miseri salari e’ crollato, con un aumento dei prezzi dei beni di prima necessità (le spese per l’energia elettrica delle famiglie più povere, ad esempio, sono cresciute del 167%), cui si aggiungono i tagli ai sussidi per il carburante ed una drastica riduzione del numero delle famiglie che hanno diritto al pane “di stato”, alimento base per le famiglie più povere.

L’articolo che pubblichiamo – lo riprendiamo da Middle East Research and Information (per la versione in francese vd. A l’encontre) – testimonia dell’ennesima forma di resistenza messa in atto da un vasto movimento popolare, la campagna “vogliamo vivere”, che raccoglie numerose associazioni, gruppi politici, sindacati di base. Le manifestazioni, i blocchi stradali, i sit-in davanti agli uffici amministrativi hanno visto come protagoniste le donne, e si sono estesi in tutto l’Egitto, da Alessandria alle regioni povere del sud del paese. Queste proteste si affiancano agli scioperi operai che dal 2014 sono ripresi, nonostante la loro criminalizzazione che ha portato molti lavoratori in carcere e davanti ai tribunali militari. La normalizzazione dell’Egitto si sta rivelando sempre più una chimera, per Sisi e i suoi ‘alti protettori’ internazionali e di area. Essa assomiglia sempre più ad una bomba pronta ad esplodere … non vediamo l’ora!

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On the Breadline in Sisi’s Egypt

by Neil Ketchley, Thoraya El-Rayyes | published March 29, 2017

On March 6, 2017, hundreds of local residents took to the streets of towns and cities in Upper Egypt and the Nile Delta after the Ministry of Supply cut their daily ration of subsidized baladi bread. By the following day, thousands were protesting in 17 districts across the country. In Alexandria, protestors blockaded a main road at the entrance of a major port for over four hours, while residents in the working class Giza suburb of Imbaba blocked the airport road. Elsewhere, women in the Nile Delta city of Dissuq staged a noisy sit-in on the tracks of the local train station, where they chanted, “One, two, where is the bread?” and called for the overthrow of President Abdel Fattah El-Sisi’s government. [1] It was not long before the Arabic hashtag #Supply_Intifada was trending on Egyptian Twitter. In a bid to curtail further mobilization, Egypt’s military-backed government scrambled to restore residents’ access to bread, and promised to increase the ration in areas that had seen protest.

Food Protests
Egypt’s latest round of food protests comes amidst ongoing price shocks resulting from the flotation of the Egyptian pound in November 2016. The devaluation of the pound is part of a series of measures, which include spending cuts and the introduction of a value added tax, demanded by the International Monetary Fund (IMF) in exchange for a 12 billion dollar loan to prop up Egypt’s failing economy. [2] By February 2017, food inflation reached 42 percent. [3] Key staple goods have been particularly affected: Over the past year, Egyptians have seen the cost of bread and cooking oil go up by nearly 60 percent. [4] To put this into perspective, in the year leading up to the 2011 Arab Spring, food prices in Egypt were subject to an annual increase of around 15 percent. [5] Citing these and comparable developments, scholars have argued that grievances arising from food insecurity were a key factor in the outbreak of the 25th January Egyptian Revolution. [6]

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There is historical precedent here. In Egypt, the price of bread has been seen as a potentially explosive issue since the 1977 “Bread Intifada”—when then President Anwar Sadat’s pledge to end subsidies on several basic foodstuffs sparked unruly protests across the country, which were met with harsh repression. Within two days, the state had reversed course, pledging to leave the subsidy system intact. Elsewhere in the region, attempts to cut state subsidies have suffered a similar fate: In recent years, austerity measures have been thwarted by street-level mobilization in Morocco, Tunisia, Jordan, Yemen and Mauritania. [7] Fast forward to 2017 and the contours of future contestation in Egypt may now be taking shape, as soaring inflation is coupled with high levels of unemployment. [8] Indeed, if grievance led explanations for the timing of the 2011 Arab Spring are correct, then the scope conditions for another mass uprising are seemingly in place. Continua a leggere Egitto: la protesta popolare torna nelle piazze

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Cose non dette. Provocazioni e piani per una guerra nucleare

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Nel momento in cui l’Amministrazione Trump vara un colossale aumento della spesa militare  e per la repressione interna (+54 miliardi di dollari per il 2018, pari ad un incremento annuo poco sotto il 10%), e in parallelo un taglio brutale delle spese direttamente o indirettamente sociali, ci sembra utile far conoscere questo intervento di J. Deutsch, una psicoanalista canadese che è stata presidente di Science for Peace.

Le informazioni che dà sono di grande interesse perché fanno vedere quanto sia andata avanti, sotto l’amministrazione Obama, la ‘banalizzazione’ della guerra nucleare, anche – aggiungiamo noi – attraverso l’intensificazione della produzione delle mini-atomiche B-61-12 (4 volte più devastanti delle bombe scagliate su Hiroshima e Nagasaki), già dislocate anche in Italia. E quanto siano andati avanti i piani USA/NATO/Israele di accerchiamento militare di Russia, Cina e Iran.

Con la decisione di Trump la corsa agli armamenti, che aveva già coinvolto negli scorsi anni le monarchie del Golfo, la Cina, l’India e il Giappone, accelera decisamente. Unione Europea e Italia seguono a ruota con aumenti di spesa più o meno camuffati, ma reali e in prospettiva molto più marcati, e con il progetto di un vero e proprio esercito integrato europeo – sponsor, tra gli altri, proprio Gentiloni e Pinotti, oltre che, si capisce, Finmeccanica, Fincantieri, etc.

[source: Unspoken Words, The Bullet, Feb. 2017, nr. 1369]

 

La campagna elettorale americana è stata percorsa da un brivido d’angoscia davanti alla prospettiva che Clinton o Trump avrebbero presto avuto il codice nucleare e con esso il potere d’annientare l’umanità pigiando qualche bottone. Ma, tolto qualche accenno, dov’è andato a finire il dibattito sugli armamenti nucleari? Fa eccezione il breve articolo di Robert Dodge su CounterPunch, in cui si dice come il Bollettino degli scienziati atomici abbia spostato avanti il suo Orologio dell’apocalisse portandolo a 2 minuti e mezzo dalla “mezzanotte” che segnerà, con lo scoppio d’una guerra nucleare o a causa del cambiamento climatico, l’estinzione dell’umanità: “il congresso non è neanche lontanamente sfiorato dal tema degli armamenti nucleari, non si stanno certo facendo in quattro”.

In un’intervista rilasciata a Sonali Kolhatkar lo scorso 30 gennaio, George Lakoff ragiona sul ballon d’essai che Trump ha lanciato riguardo agli armamenti nucleari, quando ha detto che se li abbiamo allora dobbiamo usarli. Lakoff ha notato che le reazioni sono state scarse e presto sono del tutto venute meno; all’opinione pubblica, ha sottolineato Lakoff, non interessa il tema. Non gli interessa o non lo conosce? Il professore di Harvard Elaine Scarry ha dichiarato che alcuni dei suoi studenti non hanno mai sentito parlare di Hiroshima e Nagasaki.

E’ rischioso non sapere nulla di armamenti nucleari di questi tempi. Trump ha ereditato da Obama l’escalation militare e l’azione di accerchiamento condotta da Stati Uniti, NATO ed Israele contro Iran, Cina e Russia, nonché un programma da un miliardo di dollari per modernizzare gli armamenti nucleari. Continua a leggere Cose non dette. Provocazioni e piani per una guerra nucleare