Come lo stato di Israele distrugge sistematicamente l’ambiente di vita dei palestinesi – materiali

Segnaliamo alcuni materiali utili a comprendere quale sistematica devastazione dell’ambiente di vita dei palestinesi abbia compiuto lo Stato di Israele nei passati decenni, e come questa opera di spietato colonialismo di popolamento e di apartheid prosegua senza soluzioni di continuità, anzi si stia negli ultimi anni intensificando.
Ci sarebbe qualcosina da dire, poi, sull’eco-sionismo, cioè sul tentativo dello stato di Israele di mascherare i suoi crimini (anche) ambientali magnificando i lavori di riforestazione compiuti magari sui territori di villaggi palestinesi rasi al suolo e dei quali si vuole cancellare il ricordo, come si mostra nel documentario di Mark J. Kaplan, Il villaggio sotto la foresta, con cui si è aperta a Venezia, giovedì 13 aprile, la nuova edizione della tenace e sempre bella rassegna Cinema senza diritti. [Per la memoria: furono 500 i villaggi palestinesi interamente distrutti dall’esercito israeliano all’atto della fondazione di Israele.] (Red.)
Continua a leggere Come lo stato di Israele distrugge sistematicamente l’ambiente di vita dei palestinesi – materialiIsraele: con il governo Netanyahu è in arrivo una nuova Intifada palestinese? (italiano – English)
Lo stillicidio di palestinesi assassinati dallo stato di Israele nelle ordinarie azioni di controllo, perlustrazione, incursione, caccia ai ricercati, etc. continua senza sosta nell’assordante silenzio dei mass media internazionali e nazionali, e nel disinteresse ormai cronico di quel che resta di una “sinistra di classe” sempre più affollata di sbandati e ciarlatani alla deriva.
Solo per ricordare i nomi degli assassinati dal 1 dicembre scorso ad oggi: Mohammad Badarna, 26 anni, ucciso a Yaabad (Jenin) dall’esercito. Naim Jubaidi, militante del Jahid Islami, ucciso a Jenin dall’esercito. Omar Mannaa, 22 anni, panettiere, ucciso a Betlemme dall’esercito. Mu jahed Hamed, 32 anni, ex-detenuto politico, ucciso da forze israeliane nel villaggio di Silwad (Ramallah). Tarq al Damej, Sudqi Zakameh e Atta Shalabi, uccisi nel campo profughi di Jenin dall’esercito israeliano in una retata costata anche almeno 10 palestinesi feriti. Ahmed Daragmeh, 24 anni, ucciso in uno scontro a fuoco con forze militari israeliane di scorta ad un gruppo di coloni diretti alla tomba di Giuseppe a Nablus. Fuad Abed e Mohamad Hushiyeh uccisi a Kafr Dan (Jenin) dall’esercito israeliano durante la demolizione per rappresaglia di un’abitazione palestinese. A Betlemme (il 3 gennaio) sciopero generale per protestare contro l’uccisione di un bambino da parte delle forze israeliani nel campo profughi di Aida. Amer Abu Zaitun, 16 anni, ucciso nel campo profughi di Balata (Nablus) in una incursione dell’esercito israeliano. Ahmed Abu Junaid, 21 anni, ucciso nello stesso campo profughi da unità speciali israeliane. Samir Alsan, 41 anni, ucciso al posto di blocco di Qalandiya per aver cercato di impedire l’arresto del proprio figlio di 14 anni. Habib Kamil, ucciso dai soldati israeliani a Qabatiya (Jenin) e poco dopo nella stessa località è stato assassinato Abdulhadi Nazzal. Ezzedin Hamamra (24 anni) e Amjad Khalilyah (23 anni), due combattenti palestinesi, uccisi in uno scontro a fuoco a Jaba, a sud di Jenin, dai soldati israeliani… Sempre più morti nella Cisgiordania.
Non è passato inosservato, invece, il ritorno al potere di Netanyahu alla testa di una destra sempre più estrema, che si è presentata con la provocatoria “visita” alla Spianata delle Moschee del capo del partito Sionismo religioso, Ben-Gvir, nuovo ministro della sicurezza (della repressione sui palestinesi). Il fatto è avvenuto appena cinque giorni dopo l’insediamento del nuovo esecutivo ultra-sionista ed è stato accompagnato dalla seguente dichiarazione: “Questo è il luogo più importante per il popolo ebraico. Manterremo la libertà di movimento per musulmani e cristiani, ma vi accederanno anche gli ebrei, e alle minacce di Hamas risponderemo con il pugno di ferro”. Perfino gli asserviti funzionari della cosiddetta Autorità palestinese hanno dovuto qualificare questo gesto “una provocazione che porterà a maggiori tensioni e violenze”, mentre l’altrettanto asservita monarchia giordana si è appellata alla “Comunità internazionale” contro la “violazione del diritto internazionale”, affinché la suddetta Comunità (di briganti), da sempre spalleggiatrice e complice dello stato di Israele, o – come minimo – indifferente ai suoi crimini, adotti “azioni rapide e decisive” verso Israele. Rapide e decisive… e come no?! Simili ipocrite prese di posizione sono arrivate anche da altri stati arabi. E perfino dagli Stati Uniti, la cui ambasciata in Israele ha dettato un comunicato in cui si afferma con l’abituale ambiguità: “Le azioni che possono minacciare l’ordine nei luoghi sacri di Gerusalemme sono inaccettabili”.
Eppure, come documenta in modo efficace questo articolo a firma Cenk Agcabay che riprendiamo da The Bullet, certi settori dei mass media statunitensi e israeliani sono realmente in allarme per il prevedibile impatto della politica anti-palestinese più che mai oltranzista, bellicista, stragista che il governo Netanyahu ha in agenda. Il timore di costoro non è per le terribili conseguenze che tutto ciò può avere per la vita delle masse palestinesi, ma – al contrario – per la messa in questione della “sicurezza di Israele”, a misura che inevitabilmente porterà ad una reazione militante, combattente palestinese, e di riflesso – in qualche misura – anche araba.
L’articolo di Agcabay parla di una radicalizzazione in corso nelle masse giovanili palestinesi (c’è bisogno di specificare che si tratta di giovani proletari?)“in modi che non abbiamo mai visto prima“, che non hanno più alcuna fiducia nella “Autorità palestinese”, e neppure accettano le vecchie divisioni settarie – come si è visto nell’ultima grande ondata di manifestazioni e scioperi del maggio 2021. Ma la preoccupazione statunitense ed occidentale va molto al di là della sola Palestina, riguarda l’intero mondo arabo, che – a livello di massa – non ha affatto dimenticato la causa palestinese: prova ne sia quanto accaduto anche nel corso degli ultimi mondiali in Qatar, come si sostiene nell’articolo di Ramzy Baroud, a cui rinviamo più sotto, pubblicato da The Palestine Chronicle.
Da tempo il vento che spira nel mondo arabo non porta buoni messaggi ai super-colonialisti di Washington e della UE. Trent’anni ininterrotti di guerra in Iraq non hanno certo prodotto un trionfo statunitense, né sul piano economico né su quello politico. Le due grandi sollevazioni di massa avvenute in una molteplicità di paesi arabi negli anni 2011-2012 e 2018-2019, sebbene non abbiano avuto risultati risolutivi, hanno tuttavia risvegliato dalla passività e dal fatalismo milioni e milioni di sfruttati/e e oppressi/e facendogli fare un’esperienza di auto-organizzazione di enorme significato, che ha indebolito la legittimità e la solidità di regimi nella gran parte dei casi infeudati alle potenze occidentali. Anche ai vertici dei paesi arabi i governi occidentali notano e temono una crescente assertività – che ha evidentemente qualcosa a che vedere con le sollevazioni popolari, a cui non si può rispondere solo ed esclusivamente con gli eccidi e le carceri. L’enorme massa di rendita globale affluita nelle casse delle petrolmonarchie che stanno beneficiando della crescente scarsità di risorse energetiche, e l’avvento di una nuova generazione di governanti sempre più ambiziosi e modernizzanti, stanno portando questi regimi ad allontanarsi dalla soffocante tutela dei signori del dollaro e dell’euro e ad intrecciare rapporti sempre più autonomi con la Cina, la Russia e gli altri paesi ascendenti in attrito con i vecchi padroni del mondo. In un contesto così complicato per gli interessi occidentali e così denso di sostanze infiammabili, il neonato esecutivo Netanyahu imbottito di coloni fascisti o semi-fascisti nei posti di comando chiave può, con le sue decisioni e azioni, provocare un incendio di inedite proporzioni di cui potrebbe beneficiare, in ultima analisi, solo la causa della rivoluzione sociale anti-imperialista e anti-capitalista nel mondo arabo e alla scala mondiale.
Ecco perché la solidarietà attiva, permanente, con la lotta di liberazione delle masse oppresse e sfruttate di Palestina contro lo stato di Israele e i suoi protettori e complici, è un punto fermo dell’autentico internazionalismo proletario. (Red.)
Leggi anche: 18 maggio, sciopero generale in Palestina, dal fiume al mare! ()
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E’ in arrivo una nuova Intifadah?
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Ciò che viene scritto questa settimana dalla stampa mainstream occidentale e israeliana sulla composizione politica del nuovo governo israeliano offre importanti spunti per il prossimo futuro. Secondo un editoriale del New York Times, “il governo di estrema destra che presto prenderà il potere, guidato da Benjamin Netanyahu, segna una rottura qualitativa e allarmante con tutti gli altri governi nei 75 anni di storia di Israele”.
L’editorialista del New York Times Thomas Friedman, appena tornato da un viaggio in Israele, ritiene che il nuovo governo sarà “il governo più ultranazionalista e ultrareligioso nella storia del Paese”. Friedman scrive di essere molto preoccupato per il futuro di Israele perché “quattro dei cinque leader del partito del nuovo governo di coalizione – Netanyahu, Aryeh Deri, Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir – sono stati arrestati, accusati, condannati o imprigionati per corruzione o istigazione al razzismo”.
Secondo Friedman, l’esito più probabile delle politiche del nuovo governo è “un completo pasticcio che renderà Israele non più una fonte di stabilità per la regione e il suo alleato americano, ma piuttosto un calderone di instabilità e una fonte di preoccupazione per il governo degli Stati Uniti”. L’editoriale è anche preoccupato per il futuro di Israele e ritiene che il nuovo governo “rappresenti una minaccia significativa per il futuro di Israele, la sua direzione, la sicurezza e persino l’idea di una patria ebraica”.
Guerra di religione?
Yaakov Katz, editorialista del Jerusalem Post, ha espresso preoccupazioni simili nel suo articolo. Egli si è occupato specificamente di un accordo raggiunto nel parlamento israeliano a favore dei suddetti candidati ministeriali razzisti e religiosi. Sono state emanate speciali leggi ad personam a tutela di questi individui, che non potevano diventare ministri a causa dei loro crimini e delle condanne a loro carico, consentendogli così di diventare ministri. Katz ha scritto che questi accordi legali erano “storici” per il paese. Nel suo articolo, Katz ha attirato l’attenzione sul pericolo che “Israele si trasformi in uno stato religioso”.
Normalizzazione araba e lotta palestinese per la liberazione, di Yara Hawari
Nablus, il funerale di Wadih Al Houh e di altri militanti della Fossa dei Leoni uccisi tre giorni fa dall’esercito israeliano nell’operazione militare più imponente, nella città, degli ultimi vent’anni. Altro che “normalizzazione”! O meglio: è la normalizzazione di uno spietato colonialismo che, nonostante i suoi mezzi debordanti, non riesce a piegare le masse degli oppressi palestinesi, la cui resistenza riemerge periodicamente dalle proprie ceneri.
Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa sintetica, precisa analisi del processo di normalizzazione dei rapporti tra lo stato di Israele e gli stati arabi, iniziato con l’Egitto e poi via via estesosi a molti altri stati.
Il primo punto che vogliamo sottolineare nell’articolo di Yara Hawari riguarda la progressiva involuzione della politica dei regimi dei paesi arabi nei confronti della questione palestinese, che ha toccato il suo apice con gli “Accordi di Abramo” del 2020. Quegli accordi hanno stabilito una sorta di pace e di attiva collaborazione tra regime sionista e regimi arabi svendendo le sorti della causa palestinese. Questa progressiva involuzione viene da lontano e si è accelerata da vent’anni in qua, aprendo una crescente contraddizione tra i regimi arabi e le rispettive popolazioni, di cui l’articolo ricostruisce le tappe principali.
Il secondo punto d’interesse è la divaricazione che avanza tra “popolazioni” e regimi, anch’essa nata da tempo sulla base soprattutto di uno spontaneo sentimento di solidarietà militante “in basso”. Questa distanza è aumentata al punto tale che gli Emirati hanno emanato leggi e direttive che considerano reati – quindi soggetti a repressione, minacce, intimidazioni – le attività di protesta contro il processo di “normalizzazione” dei rapporti con i sionisti.
Contemporaneamente, però, sono iniziate le prime attività di protesta in tutta l’area, nelle quali non sono coinvolti solo intellettuali, atleti, settori della piccola borghesia, che si danno non solo in nome della causa palestinese ma anche della lotta contro i propri regimi dispotici. Anche se a queste proteste partecipano organizzazioni sindacali, la componente proletaria non è ancora misurabile con precisione così come non ne è ancora ben definito il carattere. Ma non possiamo ragionare e valutare tali movimenti con le categorie in uso nei paesi occidentali che hanno una più lunga storia di formazione delle nazioni, e quindi delle moderne differenziazioni in classi delle rispettive società. L’internazionalizzazione o, se si preferisce, la globalizzazione dei rapporti sociali capitalistici stanno comunque favorendo l’emergere di un ruolo maggiormente definito della componente proletaria dei movimenti sociali e politici, costringendo le analisi accurate di questi movimenti a passare dalla categoria “popolo arabo” a quella di “masse arabe” sfruttate e oppresse, e poi alla categoria proletariato in un processo già in atto e destinato ad incrementarsi. La categoria indistinta di popolo, già inutilizzabile da lungo tempo – in un’ottica marxista – per le società capitalistiche sviluppate, sta diventando sempre più inutilizzabile e fuorviante anche per l’insieme dei paesi arabi, a cominciare da quelli che stanno conoscendo uno sviluppo capitalistico più impetuoso, come i paesi della penisola araba (eccettuato il disastrato Yemen). Come abbiamo scritto già dieci anni fa nell’editoriale del n. 1 del Cuneo rosso dedicato alla grande Intifada araba del 2011-2012, il processo della rivoluzione democratica e anti-imperialista nel mondo arabo ha il suo epicentro sociale sempre più spostato verso la massa dei proletari, dei diseredati, dei giovani senza futuro. Ed in questo senso anche il serio articolo di Yara Hawari, che qui riprendiamo, rimane un po’ indietro rispetto all’evoluzione sociale in corso. (Red.)
INTRODUZIONE
Il termine “normalizzazione” è emerso in seguito alla firma del trattato di pace Egitto-Israele del 1979, in cui si affermava che “i firmatari stabiliranno tra loro rapporti normali come Stati in pace tra loro”. In precedenza, i rapporti con il regime israeliano erano più colloquialmente indicati come khiyanah (tradimento o slealtà). In risposta al termine “normalizzazione”, palestinesi e arabi hanno iniziato a usare “anti-normalizzazione” per descrivere il rifiuto di trattare con il regime israeliano come un’entità normale.
Mentre il vuoto dibattito sulla costruzione della pace emerso dagli accordi di Oslo del 1993 ha inizialmente oscurato gli sforzi di anti-normalizzazione, nel 2007 la società civile palestinese ha rinnovato il suo consenso sull’argomento attraverso il Movimento Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS). Il Movimento ha definito chiare linee guida per palestinesi e arabi che sottolineano l’importanza di rifiutare il riconoscimento del regime israeliano come un’entità avente diritto a normali relazioni con coloro che opprime, così come i loro vicini. Ciò include il rifiuto di prendere parte a progetti o eventi che riuniscono palestinesi/arabi e israeliani, in cui la parte israeliana non riconosce i diritti fondamentali dei palestinesi secondo il diritto internazionale e in modo non allineato con lo spirito di co-resistenza. I palestinesi hanno invitato gli arabi ad aderire a queste linee guida in risposta ai persistenti sforzi del regime israeliano per normalizzare la sua presenza colonialista in tutta la regione, prendendo atto della loro storia condivisa e della loro lotta contro il progetto sionista.
Nonostante questo rinnovato appello da parte della società civile palestinese, le politiche dei regimi arabi verso la normalizzazione delle relazioni con il regime israeliano sono cambiate a un ritmo allarmante. Ciò è stato incarnato dagli Accordi di Abramo del 2020, che, anziché portare pace e stabilità nella regione come affermato dai suoi sostenitori, hanno riunito governi autoritari per firmare accordi sulle armi e ulteriore condivisione di informazioni tra agenzie dei servizi.
Tuttavia, la normalizzazione del progetto sionista da parte dei regimi arabi non è un fenomeno nuovo, e nemmeno l’opposizione ad esso. La normalizzazione è stata una caratteristica della geopolitica regionale per un secolo. Pertanto, questo resoconto delinea le manovre di normalizzazione storiche e contemporanee nella regione; traccia poi una distinzione tra i regimi arabi e il popolo arabo, che si è continuamente opposto alla normalizzazione. Conclude descrivendo le implicazioni delle politiche di normalizzazione per la liberazione palestinese e il futuro della regione.
Continua a leggere Normalizzazione araba e lotta palestinese per la liberazione, di Yara HawariMateriali dal presidio di Venezia del 20 maggio – Comitato permanente contro le guerre e il razzismo
Noi stiamo dalla parte delle masse lavoratrici che in Ucraina, in Palestina, nello Yemen, in Kurdistan, sono trascinate a forza nelle guerre dai grandi poteri coloniali e neo-coloniali che spadroneggiano nel mondo. Per questo non ci stancheremo di dire: non un uomo, non un soldo per le guerre dei capitalisti! Guerra alle loro guerre, dall’Ucraina alla Palestina!
Il Comitato permanente contro le guerre e il razzismo di Marghera ha contribuito allo sciopero “contro la guerra e l’economia di guerra” indetto dal sindacalismo di base venerdì 20 maggio con un’azione di propaganda e agitazione che si è articolata in tre momenti.
Il primo si è svolto sabato 14 maggio alla manifestazione pacifista-ecologista di Mestre, con la distribuzione di un testo che partiva dai temi specifici di quella manifestazione per allargare lo sguardo alle guerre in corso e alla lotta contro le guerre (è stata l’occasione per discutere con alcuni dei giovani partecipanti alla marcia – che era meno folta e tesa di anni precedenti).
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