La rivoluzione d’Ottobre, primo attacco a tutto campo all’oppressione della donna

Il poster (del 1920) dice: “ecco ciò che la rivoluzione di Ottobre ha dato alle donne operaie e contadine” – in primo piano i simboli del lavoro extra-domestico (il martello, la falce); in secondo piano, indicati dalla mano della donna, gli asili, le biblioteche, i circoli delle lavoratrici.

In tempi in cui potenti meccanismi sistemici agenti sulla nostra psiche cercano di cancellare del tutto la funzione della memoria, in tempi di corrosivo revisionismo storico anti-comunista, ci è sembrato utile invitare chi ci segue ad un ripasso della storia reale, non adulterata, del movimento rivoluzionario proletario che da quasi due secoli si batte contro il capitalismo e sempre riemerge come la fenice dalle proprie ceneri. In questo testo si spiega che nella storia dell’umanità il primo assalto a tutto campo alla condizione di oppressione della donna è avvenuto solo con la Rivoluzione di Ottobre è forse il caso di ricordare a certi disperati o mascalzoni matricolati che osano scambiare Putin per un Che Guevara o un Lenin del XXI secolo che il “modello di società” putiniano-meloniano è letteralmente antitetico, anche in questo campo, a quello della Rivoluzione d’Ottobre? No, non servirebbe a nulla. Ma ai giovani che si affacciano oggi alla militanza conoscere bene il passato della rivoluzione e della controrivoluzione serve, e come! (Red.)

Nel momento in cui inizia a prender forma di nuovo un embrione di movimento di lotta mondiale delle donne, è utile tornare sulla sola grande esperienza avveniristica del passato che si pose il compito della integrale liberazione della donna: la rivoluzione proletaria d’Ottobre. Negli anni 1917-1923 essa gettò in Russia, nelle condizioni più avverse, le premesse giuridico-politiche e “ideali” di tale liberazione. Il trionfo della controrivoluzione non le diede il tempo e il modo di andare oltre le prime premesse e alcuni arditi esperimenti, ma quanti preziosi insegnamenti se ne ricavano tutt’oggi!

Rivoluzione francese e Comune di Parigi

C’è una netta linea di demarcazione tra la politica della rivoluzione borghese e quella della rivoluzione proletaria nella “questione femminile”, e prima dell’Ottobre l’ha tracciata la Comune di Parigi.

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Il maestro e la scolara. Cocomeri turchi e Meloni italiani – Comitato 23 settembre

Nella foto, lo striscione “forti insieme”

Nella propaganda fatta bene i dati di fatto non contano nulla: l’essenziale è trovare facili bersagli per dirottare l’insoddisfazione, la precarietà, la paura per la propria incolumità, tanto presente anche se non sempre manifestata nella vita di tante donne, e trasversale rispetto alla loro posizione sociale.

L’infame messa in rete dello stupro di Piacenza da parte dell’astro nascente della politica italiana non è stata una svista o una scivolata di cattivo gusto, ma un’abile anche se non nuova mossa politica che fa leva sulla paura delle donne, e offre un’ulteriore possibilità alle manifestazioni ipocrite di stigmatizzazione della violenza, senza che nulla venga fatto per affrontarne le cause profonde. Il vero scopo è evidentemente un altro, quello di lanciare gli uni contro gli altri gli strati più deboli della società, i più sfruttati e oppressi dal capitalismo anche attraverso il sessismo e il razzismo, e indicare alle donne come causa dell’oppressione e della violenza gli immigrati, aggiungendo alle già tante giustificazioni della loro emarginazione e del loro supersfruttamento la loro “natura” di predatori.

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Donne in Marocco. Il coraggio della dignità – Comitato 23 settembre

Non è ammissibile che una donna per poter lavorare debba accettare le avance spinte dei capi. Ne va di mezzo la nostra dignità.

Ci vuole veramente coraggio, in un paese dove solo il 23% delle donne riesce a trovare un lavoro, un lavoro per lo più precario, malpagato e senza tutele, per denunciare il proprio datore di lavoro, un ex imprenditore francese, di molestie e abusi. L’accesso al lavoro per le donne è ostacolato in tutto il Nord Africa dalla assoluta mancanza di tutela per le lavoratrici, specialmente nel settore privato, oltre che dalle tradizioni che spingono le donne a non esporsi a pericoli e molestie affrontando il lavoro fuori casa.

La mancanza di servizi e la difficoltà di conciliare il lavoro domestico e di cura con il lavoro fuori casa fanno sì che, nonostante il crescente livello di istruzione delle giovani, il tasso di disoccupazione delle donne sia il 25% superiore a quello dei maschi.

Le molestie e gli abusi denunciati nella nota pubblicata da Pressenza, e che di seguito riportiamo, sono all’ordine del giorno, e vengono subiti, in Marocco come altrove, sotto la minaccia di licenziamento.

E’ una dimostrazione ulteriore della trasversalità di questa specifica forma di oppressione e ricatto che subiscono le lavoratrici in ogni parte del mondo, dagli Usa alla Cina, dall’Africa all’Italia. Perciò è importante far conoscere e sostenere questa lotta, non solo sul piano giuridico, ma sul piano dell’iniziativa collettiva, dando forza alla lotta per la dignità che è stata uno degli obiettivi fondamentali delle grandi insorgenze che hanno percorso tutto il mondo arabo negli ultimi anni.

Marocco, denuncia contro le violenze sessuali per rivendicare il diritto al lavoro delle donne con dignità

18.06.22 – ANBAMED

L’associazione marocchina per i diritti delle vittime in una conferenza stampa a Tangeri ha presentato i casi di 4 donne che accusano l’ex imprenditore francese delle assicurazioni Assu 2000, Jacques Bouthier di aver commesso nei loro confronti molestie sessuali e di aver subito il licenziamento per il rifiuto delle pesanti avances del ricco manager francese. Le ragazze tra i 25 e 28 anni si sono presentate con il volto coperto per rispetto della privacy.

I 4 casi sono stati denunciati presso la procura di Tangeri. L’uomo d’affari francese è accusato in Francia di abusi sessuali su minorenni e per altri reati.

Questa denuncia delle 4 donne marocchine segna un’importante soglia di coraggio nell’affrontare il tema della violenza sessuale sulle donne. Malgrado che il Marocco abbia approvato una legge che inasprisce le pene per le molestie e violenze sessuali, molte donne non denunciano per timore delle reazioni sociali e dell’ambiente familiare. Una delle 4 donne dell’odierna denuncia ha affermato: “Ho presentato la denuncia alla procura per dare coraggio alle altre donne che hanno subito come me molestie e violenze sessuali sul lavoro. Bisogna mettere fine a questa piaga che danneggia noi donne sul lavoro e nella società. Non è ammissibile che una donna per poter lavorare debba accettare le avance spinte dei capi. Ne va di mezzo la nostra dignità.

Per Atika Gharib e tutte le Atika del mondo: la nostra denuncia, la nostra sentenza – Comitato 23 settembre

L’assassino di Atika Gharib, il molestatore delle sue figlie, è stato condannato ieri 7 febbraio all’ergastolo, con 4 mesi di isolamento. La giustizia dei tribunali, basata essenzialmente sulla responsabilità individuale, ha fatto il suo corso. Nessuno sconto per l’imputato. Nessuna attenuante.

Il nostro comitato, nato il giorno in cui questo processo è cominciato, e presente davanti al tribunale il giorno della sua conclusione, non ha certo finito il suo lavoro con la condanna pronunciata oggi. Siamo appagate da questa sentenza?

No. Non perché siamo indifferenti al riconoscimento della colpa o all’entità della pena. Ma perché non crediamo che questa sentenza modifichi di fatto la situazione sociale generale in cui possono maturare delitti atroci e quotidiane violenze contro le donne. Non crediamo che essa intacchi nel profondo il senso di possesso che caratterizza molto spesso i rapporti interpersonali, anche i più stretti, che dovrebbero essere improntati alla solidarietà e all’amore. Non crediamo che il clima sociale in cui viviamo, sempre più caratterizzato dalla stretta repressiva e dalla sopraffazione sessista, patriarcalista, classista e razzista possa essere combattuto a suon di sentenze, che stigmatizzano colpe individuali, mentre cresce la pressione su tutta la classe lavoratrice.

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Contro l’islamofobia – III. La donna islamica tra l’incudine e il martello (italiano – arabo)

Pubblichiamo qui la terza parte dello scritto contro l’islamofobia, dedicata alla “questione di genere”. Nei giorni scorsi la decisione del governo talebano di imporre una serie di odiose restrizioni alla mobilità autonoma delle donne sul territorio afghano, è stata l’occasione per intonare per la milionesima volta l’abusata canzonaccia: lo vedete quanto sono trogloditi gli islamici, e quanto era e resta necessario ‘civilizzarli’ con ogni mezzo? Mentre in contemporanea Radio 3, quasi a fare il controcanto in apparenza “liberatorio”, mandava in onda l’entusiastica sponsorizzazione della mostra, a Treviso, della disegnatrice afghana Kubra Khademi che si è, per dir così, specializzata in nudi femminili.

A fronte dell’impudente esibizione del “femminismo imperialista” italiano, europeo, occidentale, non è tempo perso riproporre qui un testo che affronta la questione in chiave storica, e mostra quanto il colonialismo europeo abbia “fatto soffrire terribilmente tutte le donne “di colore” in ogni tempo e in ogni dove. Nelle encomiendas e nelle miniere. Come schiave oggetto di tratta e donne di schiavi. Come coolies e donne di coolies. Come serve domestiche e concubine forzate”. Tra queste, non certo ultime sono state le donne dei paesi arabi e di tradizione islamica. Da parte sua il neo-colonialismo ha battuto e batte tuttora, a volte con maggior accortezza e capacità mistificatoria, la stessa identica pista. Sicché la vera liberazione delle donne oppresse e sfruttate del mondo arabo ed islamico dai resistenti resti del patriarcalismo individuale, non potrà ricevere nessun tipo di aiuto dalle forze che diffondono nel mondo gli interessi e i motivi del patriarcalismo collettivo, che continua ad impazzare in Occidente, nonostante lo strombazzato principio di eguaglianza tra i generi e le contrastate battaglie delle masse femminili.

Qui i link alle due parti precedenti:
Contro l’islamofobia, arma di guerra – I. L’industria dell’islamofobia
Contro l’islamofobìa, arma di guerra – II. Il falso mito dell’Islam conquistatore e colonizzatore

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Per scongiurare questo fatale incontro [l’incontro tra i lavoratori immigrati e i lavoratori autoctoni che si sentono sempre più “immigrati” nella propria terra di nascita – n.], per tenere il più lontani, reciprocamente estranei ed ostili possibili le popolazioni, i lavoratori, gli sfruttati e le sfruttate del mondo “islamico” e quelli/e di “casa nostra”, l’orchestra anti-islamica torna di continuo su un altro motivo: l’oppressione della donna. L’Islam opprime le donne, da sempre. A “noi” euro-occidentali il nobile compito di liberare le prigioniere dal loro carcere. Non, però, un semplice compito tra gli altri; piuttosto un dovere inderogabile, una mission affascinante. I campioni del colonialismo storico à la Cromer ne fecero un proprio punto d’onore. I loro epigoni di oggi ci tengono a non sfigurare, e si affollano ardenti attorno alle bandiere del femminismo [imperialista].

Non voglio imbarcarmi in una disputa sul lontano passato circa l’islam e la donna. Dichiaro semplicemente di concordare con la logica di indagine e le (provvisorie) conclusioni di L. Ahmed[1]. A suo parere l’islam dei primordi ha sotto alcuni aspetti migliorato la condizione della donna in Arabia, ponendo limiti al ripudio, alla poligamia, garantendole alcuni diritti patrimoniali e, soprattutto, affermando un’etica “irriducibilmente egualitaria” anche nel rapporto tra i sessi. E tuttavia l’Islam si affermò in un contesto medio-orientale già divenuto solidamente patriarcale sotto gli imperi bizantino e sassanide. Da questo contesto, dalle culture giudaica, zoroastriana, cristiano-bizantina che lo dominavano, il movimento islamico assorbì ben presto l’inferiorizzazione sociale e spirituale della donna, attuata per mezzo della sua riduzione a mera “funzione biologica, sessuale e riproduttiva”. Venne così meno, almeno nei suoi filoni maggioritari ortodossi, ai propri postulati etici. Non diversamente che nel cristianesimo, solo nelle tendenze ereticali, tra i sufi, i carmati, i kharigiti, troviamo un maggior riconoscimento effettivo della “pari dignità” della donna, con il divieto del concubinato, della poligamia, del matrimonio con le bambine e l’ammissione della donna al ruolo di guida religiosa. Dopo l’avvento delle società urbane e delle “prime forme statuali”, furono le guerre di conquista a far precipitare la condizione sociale delle donne, consentendo una estensione inaudita della schiavitù e del concubinato. Lo aveva inteso per tempo la ribelle, tagliente Aisha: “voi ci fate uguali ai cani e agli asini”. Nei fatti, in parziale contrasto con i principi coranici e con alcune prassi dei primordi, la diffusione e il trionfo dell’Islam sancì la disuguaglianza tra maschio e femmina come vera e propria “architettura sociale[2]. E tale rimase per secoli senza grandi scosse, fino all’irruzione del colonialismo europeo.

La soggezione sociale e personale della donna all’uomo non è certo un’esclusiva delle società “islamizzate”. È una caratteristica generale di quasi tutte le società pre-borghesi, politeiste e monoteiste, buddiste e confuciane, islamiche e cristiane (escluse le società naturali). Solo la tempesta rivoluzionaria francese iniziò a mettere in discussione questa storica disuguaglianza. Ma di lì a poco il Code Napoléon la riaffermò con la forza della legge, facendosi beffe delle perorazioni di Olympe de Gouges e di Mary Wollstonecraft. L’uomo è il capo della famiglia. Punto. La donna gli deve ubbidienza, e ne riceverà, in quanto essere fragile, protezione (art. 213). Parole troppo dure? Vengono da San Paolo, si giustificò uno dei legislatori della laica Repubblica-Impero nata dalla rivoluzione[3]. Ancora nel 1843, nell’Europa che aveva già da tempo iniziato a “civilizzare” il mondo “islamico” e che aveva già da tempo trascinato molte donne a lavorare nelle fabbriche, Flora Tristan doveva definire le donne “gli ultimi schiavi”, oggetto di proprietà, in un certo senso, dei propri mariti…

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