Quando sui media occidentali si parla della Cina, se ne parla come potenza economica aggressiva, mentre di pari passo viene denunciata la violazione dei diritti umani delle minoranze, la repressione contro il dissenso a Hong Kong, etc. Denunce di fatti reali, ma impugnate solo ed esclusivamente quale giustificazione dei tentativi di contenimento della proiezione internazionale cinese da parte delle potenze imperialiste storiche. Una guerra tra predoni per combattere la quale vengono elaborate strategie, ipotizzate alleanze, organizzate prove muscolari con provocatorie manovre militari nel Mar della Cina Meridionale e nell’Oceano Indiano.
Del tutto assente dai resoconti e dai dibattiti riguardanti la Cina è la condizione della classe lavoratrice cinese, dal cui oppressivo sfruttamento scaturisce la potenza economica, politica e militare di Pechino, ed una discreta quota dei profitti delle multinazionali con base occidentale (incluse una serie di grandi imprese italiane).
Anche l’anniversario della feroce, sanguinosa repressione di piazza Tienanmen il 4 giugno, una repressione che fu contro il movimento operaio prima ancora che contro il movimento studentesco, viene ricordato dai media mainstream per sottolineare l’inumanità del sistema politico del gigante asiatico contrapposta ad una democrazia basata su presunti principi umanitari, di giustizia sociale, che sarebbe propria dei concorrenti occidentali – tipo quella denunciata da BLM negli Stati Uniti o quella vista in azione a Genova e contro le lotte dei facchini della logistica.
Le informazioni che riguardano l’enorme fetta di umanità rappresentata dalle operaie e dagli operai, dalle proletarie e dai proletari e semi-proletari cinesi (quasi 800 milioni!) sono difficili da reperire, perché soggette a censure di vario genere. Di seguito riporto alcune informazioni tratte dal sito del China Labour Bulletin, che lodevolmente si occupa da diversi anni della condizione dei lavoratori cinesi con una serie di accurate documentazioni, e promuove campagne in loro difesa.
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In Cina sono in corso riforme del diritto del lavoro, inaugurate dal governo dello Shenzhen. Ad esso lo scorso ottobre il governo centrale di Pechino ha dato l’autorizzazione di elaborare nuove forme di rapporto di lavoro per adeguarle alle esigenze delle industrie emergenti come parte di un progetto pilota per la futura riforma urbana in Cina.
La riforma prevede che i lavoratori assunti con un orario di lavoro irregolare non avranno più diritto al pagamento della maggiorazione del 300% per gli straordinari nei giorni festivi, come previsto finora dalla legge. Inoltre, le imprese potranno ritardare il pagamento dei salari fino a un mese, e il salario minimo sarà adeguato solo ogni tre anni anziché uno/due.
Tali riforme legittimano quelle che sono diventate pratiche sempre più comuni del padronato per ridurre i costi di produzione e rendere più “flessibile” il lavoro.
Per stimolare la crescita economica e ridurre l’impatto sulle piccole e medie imprese di Shenzhen prodotto dal rallentamento economico e in particolare dall’impatto della pandemia Covid-19, il governo municipale ha incentivato orari di lavoro flessibili e minori restrizioni sulle assunzioni e sui licenziamenti (“eliminare i difetti del sistema che ostacolano la mobilità del lavoro”… vi ricorda qualcosa?).
Continua a leggere Riforme anti-operaie, tirannia padronale e resistenza operaia nella Cina d’oggi, di Giulia Luzzi