L'”altra resistenza”: una storia scomoda e volutamente occultata
Di Peppe D’Alesio
Gli eventi di questi ultimi mesi, segnati dalla vittoria alle elezioni e dall’approdo al governo di un partito, Fratelli d’Italia, erede del MSI e, seppur in maniera indiretta, dei repubblichini di Salò, ha riportato in auge il tema dell’antifascismo e riacceso i riflettori sui “valori della resistenza” e della lotta di liberazione partigiana durante la seconda guerra mondiale, che sarebbero insidiati e messi in discussione dall’attuale esecutivo. Si tratta di un leit motiv che col passare del tempo è diventato sempre più trito e ritrito: un “antifascismo” da salotto televisivo che, nel celebrare i fasti di una presunta “età dell’oro” della democrazia borghese nostrana con tanto di richiami alla “costituzione più bella del mondo”, è sempre più funzionale alla difesa dello status quo esistente, ovvero del dominio borghese e del suo sistema di sfruttamento che, per dirla con Lenin, di regola assume la sembianza “democratica” quale suo involucro ideale.
La storia, come si sa, la scrivono i vincitori. Mai questa asserzione fu più corrispondente al vero come nel caso della resistenza al nazifascismo: nei quasi 80 anni che ci separano da quegli eventi si sono versati fiumi e fiumi d’inchiostro, plasmando i programmi di storia delle scuole e delle università e l’intero sistema culturale, artistico e cinematografico in funzione del dogma di una storiografia ufficiale tesa a celebrare i fasti del CLN, cioè il blocco politico tra DC, PCI, PSI, liberali ed azionisti, quali unici protagonisti ed “eroi” della liberazione dal nazifascismo. Una rappresentazione agiografica di quel “compromesso storico” ante litteram suggellato dalla “svolta di Salerno” che Stalin e Togliatti imposero a un PCI divenuto realmente un “partito nuovo”, un nuovo partito oramai del tutto svuotato dal profilo rivoluzionario che aveva caratterizzato il PCd’I di Livorno, sacrificandone ogni istanza classista e anticapitalista sull’altare del nuovo corso nazionalpopolare e della “democrazia progressiva”, abili espedienti per mascherare la definitiva accettazione da parte del suo gruppo dirigente dell’ordine economico e politico borghese.
Non deve sorprendere, quindi, che questa storiografia abbia volutamente dimenticato e occultato tutte quelle forze d’attrito prodotte dal movimento di classe, da migliaia di lavoratori ed operai, all’interno della resistenza antifascista: un ampio, articolato ed eterogeneo panorama di forze politiche e movimenti sociali che, malgrado le condizioni oggettivamente proibitive poste dalla seconda guerra mondiale, dalla brutale occupazione hitleriana e dalla altrettanto brutale opera della “repubblica di Salò”, hanno contrastato e messo in discussione l’opportunismo e l’interclassismo del PCI togliattiano.
Il recente lavoro di David Broder The Rebirth of Italian Communism, 1943-44. Dissidents in German-Occupied Rome ha il grande merito di tornare a far luce su una storia censurata per decenni, sulla quale ben poco è stato tramandato alle generazioni che non hanno vissuto l’epoca della seconda guerra mondiale, su tutte l’esperienza del Movimento comunista d’Italia, meglio noto come “Bandiera Rossa Roma” dal nome della testata e della città nella quale questa organizzazione si è sviluppata nel breve volgere del biennio 1943-45. Si tratta di uno dei tanti gruppi del “dissenso comunista” che in quegli anni si erano formati in Italia in contrapposizione al corso opportunista e interclassista del PCI, protagonisti di primo piano della lotta antifascista nella capitale occupata dal terzo Reich e la cui esistenza era stata narrata per la prima volta sul finire degli anni ’70 da Silverio Corvisieri nel testo “Bandiera rossa nella resistenza romana”, dopo oltre 30 anni di totale oblio politico.
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