La polemica internazionale sulla scissione di Livorno. Le ragioni degli uni e degli altri – Alessandro Mantovani

Riceviamo e volentieri riprendiamo dal blog Pasado y Presente del Marxismo revolucionario questo scritto di Alessandro Mantovani che mette a confronto le posizioni di Bordiga e della Sinistra comunista italiana con quelle del Comintern sul rapporto con i settori della classe lavoratrice inquadrati nelle strutture riformiste e massimaliste nei cruciali primi anni di vita del PCd’I.

La polemica internazionale sulla scissione di Livorno. Le ragioni degli uni e degli altri

Il marxismo deve rifiutare più di ogni altra cosa il fatto di rimanere congelato nella sua forma presente” (Rosa Luxemburg).

Nasce il Partito Comunista d’Italia

Poco prima delle 10 del 21 gennaio 1921, dal palco del teatro Goldoni di Livorno, dove si sta svolgendo il XVII congresso del Partito Socialista Italiano, Amadeo Bordiga, a nome della “Frazione comunista”, annuncia:

I delegati che hanno votato la mozione della frazione comunista abbandonino la sala; sono convocati alle 11 al Teatro San Marco per deliberare la costituzione del Partito comunista”.

Dicendo che la fondazione, quel giorno, della sezione italiana dell’Internazionale Comunista rappresenta il punto più alto nella storia di lotta del proletariato italiano, non si rischia troppo di cadere nella retorica: tali e tanti sono stati e sono gli attacchi a quella scissione, che avrebbe favorito, dividendo il proletariato italiano, la vittoria stessa del fascismo, che ci si trova ancora obbligati, (anzi ancora più obbligati) cent’anni dopo, a ribadire che quella frattura era giusta, improcrastinabile e inevitabile, per ragioni insieme nazionali ed internazionali.

Elenchiamole brevemente:

  1. L’Internazionale Comunista, con le 21 condizioni d’ammissione votate al suo Secondo Congresso dell’anno precedente, non aveva soltanto voluto stabilire i criteri internazionali della formazione dei partiti comunisti, ma anche attestare che la separazione dei rivoluzionari dai riformisti e dagli indecisi ed ambigui “centristi” era ormai matura; e che senza di essa, ossia senza la formazione di partiti radicalmente diversi da quelli socialdemocratici (che avevano fatto bancarotta allo scoppio della “grande guerra”), la lotta di classe europea non avrebbe potuto avere uno sbocco rivoluzionario vittorioso. E in tal senso la rottura doveva essere netta e irrevocabile.
  2. Il Partito Socialista Italiano, pur non essendo caduto – come la più parte della socialdemocrazia internazionale – nella union sacrée e nella votazione dei crediti di guerra, aveva mantenuto nel corso del conflitto un’attitudine ambigua (“non aderire né sabotare”) e passiva, che era continuata nel dopoguerra: ad una roboante fraseologia, al costante annuncio di un’imminente rivoluzione, ad un’adesione formale al Comintern, non era corrisposta nessuna seria preparazione rivoluzionaria. La direzione serratiana, intransigente e rivoluzionaria a parole, rimaneva ostaggio del pur minoritario riformismo, i cui dirigenti dominavano il gruppo parlamentare, la CGL, le cooperative e le istituzioni locali, dispiegandovi tutta la loro grande expertise nel sabotaggio delle lotte tendenzialmente rivoluzionarie che con grande abnegazione il proletariato italiano aveva messo in campo sia nella “settimana rossa” del 1914 e nell’insurrezione di Torino del 1917, sia e soprattutto nel “Biennio Rosso” 1919-1920. Accettate obtorto collo le condizioni di ammissione (i 21 punti) e la necessità di liberarsi dei riformisti, la direzione del PSI intendeva ottemperarvi non solo secondo tempistiche autonome dal contesto internazionale (che allora appariva ancora immediatamente rivoluzionario, anche se, col senno di poi, si può dire che si era già in una fase di riflusso), bensì, e qui stava il vulnus maggiore, con modalità compatibili col mantenimento della struttura e della tradizione del partito, rimandando a tempi più “maturi” persino l’adozione dell’aggettivo “comunista” al posto di “socialista”. Nella pratica ciò significava rimandare sine die l’estromissione dei riformisti.

Al Congresso di Livorno l’incapacità del massimalismo di fare i conti col riformismo, e di staccarsene, emerse nettamente, rendendo inevitabile la rottura con le correnti (“Soviet”, “Ordine Nuovo”, massimalismo di sinistra) che avevano sposato senza riserve le condizioni di ammissione, riunendosi nella “Frazione Comunista”.

L’abbraccio col riformismo andava spezzato, l’equivoco del falso rivoluzionarismo massimalista andava smascherato. E così fu. Su questo la quasi totalità dei compagni che si riuniranno al teatro San Marco per sancire la nascita del PCd’I e dei dirigenti dell’Internazionale concordavano e per la prima volta in Italia si ebbe un partito, ispirantesi al marxismo, veramente rivoluzionario. Un passo che rimane come pietra miliare e dal quale non si può tornare indietro senza tradire le basi stesse, da allora poste sul suolo italiano, del programma rivoluzionario del proletariato.

Fermarsi qui vorrebbe dire tuttavia cadere nell’agiografia. Come disse Marx, il movimento operaio, alieno da ogni dottrinarismo, critica costantemente se stesso, e non si fossilizza, pena il suo snaturamento, nelle sue forme del passato.

Il dibattito internazionale sulla scissione di Livorno

Se è vero che la “frazione comunista” e i rappresentanti del Comintern marciarono senza esitare verso la costituzione immediata del partito comunista, ciò nondimeno la scissione tradì le attese di quanti, inclusi i dirigenti di Mosca, erano persuasi che a Livorno la maggioranza del PSI – che era apparso sino ad allora come il meno compromesso dei partiti della Seconda Internazionale – sarebbe confluita nel nuovo partito.

Se così fosse stato il PCd’I si sarebbe inserito in quell’onda che aveva portato appena un mese prima (a Tours) la maggioranza del socialismo francese ad entrare nel PCF e la maggioranza degli “indipendenti” tedeschi, dopo la scissione di Halle, a confluire nel Partito Comunista Tedesco Unificato (o per meglio dire alla fusione tra sinistra USPD e KPD(S), dopo che da questo a sua volta si era staccata la sinistra estrema che aveva dato vita al KAPD).

Al contrario, il 21 gennaio 1921 solo una minoranza del XVII Congresso (pressappoco un terzo) seguì l’esortazione di Bordiga ad abbandonarne i lavori per aprire la nuova pagina del movimento operaio italiano. Risultato che deluse tutti e sorprese – forse con l’eccezione di Bordiga e dei suoi compagni del “Soviet” – molti.

Lo smarrimento colpì molti militanti: luminose figure di internazionalisti quali la coraggiosa “Ille” Zanetta e Pietrobelli, esponenti di punta del massimalismo milanese che avevano lavorato gomito a gomito con Fortichiari e Repossi, ed elementi combattivi e fortemente radicati nelle masse, quali Picelli, il futuro organizzatore delle giornate antifasciste di Parma, rimasero all’interno del vecchio partito, nel quale restarono un gran numero di provati organizzatori sindacali; vecchi socialisti intransigenti quali Alceste della Seta e militanti di punta quali Ernesto Schiavello, insieme a non pochi altri, abbandonarono presto le file comuniste per riprendere il loro posto in quelle del PSI (un anno e mezzo dopo Livorno gli iscritti al PCI si erano ridotti – anche se non certo solo per tal motivo, – a 25 mila; due anni dopo – sotto i colpi della reazione – a diecimila circa, al pari del PSI). Al contrario l’attesa migrazione della base socialista verso il partito comunista non si realizzò.

Di qui un dibattito che infurierà nei mesi ed anni successivi nel movimento operaio internazionale.

Fin dalle giornate del congresso, il dirigente comunista tedesco Paul Levi, l’artefice tanto dell’espulsione della sinistra tedesca dal KPD(S), quanto della successiva fusione con gli indipendenti di sinistra, presente a Livorno, spese tutto il suo prestigio per cercare di convincere la frazione comunista d’un lato, Serrati dall’altro, ad evitare la rottura, arrivando a telegrafare a Mosca per verificare la volontà dell’Esecutivo dell’IC di procedere ad ogni costo alla scissione. Volontà che quest’ultimo prontamente confermò.

Abbandonati i lavori del Congresso, Levi si fece animatore di una campagna internazionale contro i risultati di Livorno, facendo pressione presso i dirigenti bolscevichi affinché ai “comunisti unitari” di Serrati fosse riaperta la porta dell’adesione al partito comunista, facendo loro concessioni che li convincessero alfine ad abbandonare i riformisti.

Fu, nell’ambito dell’Internazionale, una battaglia aspra: nel partito tedesco su Livorno si addivenne addirittura alle dimissioni – per solidarietà con Levi già dimissionario – di una parte della Zentrale ed alla sostituzione di alcuni suoi membri con i compagni più in linea con le direttive di Mosca, a loro volta tuttavia persuasi che la frazione serratiana andasse recuperata.

La campagna non fu senza effetti: certo, i capi bolscevichi rifiutarono di condannare l’operato dei dirigenti comunisti italiani, addossando, a differenza di Levi – che presto sarà espulso per le sue critiche pubbliche alla März Aktion – unicamente a Serrati la responsabilità della rottura. Tuttavia, allarmati dal minoritarismo del partito comunista, di fronte al ricorso presentato dal PSI contro l’ esclusione dall’Internazionale di Mosca, decisero di invitare una delegazione socialista al successivo congresso del Comintern. Evidentemente essi, convinti che nelle file del “massimalismo”, versione italiana del “centrismo”, militassero molti sinceri rivoluzionari, speravano ancora di poter convincere costoro a separarsi da Turati per imboccare la via tracciata dai Congressi dell’Internazionale. Un’opinione condivisa da molti aderenti al Comintern, tra cui non pochi onesti rivoluzionari (un nome per tutti: Boris Souvarine).

I comunisti italiani reagirono in senso del tutto opposto ai desideri dell’Esecutivo dell’IC (e, ça va sans dire, di Levi & co.): non solo radicalizzarono la propria propaganda contro i massimalisti rimasti nel PSI, considerati nientemeno che la tendenza più pericolosa fra quelle che componevano le sfaccettature del fenomeno opportunista, bensì proposero la scissione di Livorno come un autentico esempio; un modello da seguire internazionalmente per addivenire finalmente ad un’Internazionale Comunista libera da ogni scoria del passato socialdemocratico e second’internazionalista. Il PCd’I era infatti guidato in questa prima fase della sua storia da Amadeo Bordiga, ed ispirato dalla tradizione di sinistra che era appartenuta, nel periodo preparatorio alla sua nascita, al “Soviet” ed alla “Frazione astensionista”(che aveva rinunciato, nel dare vita alla “frazione comunista”, al suo astensionismo parlamentare, ma non al suo rigorismo intransigente).

«I comunisti italiani – si legge in un rapporto del CE del PCI inviato a Mosca il 20 maggio ’21 – pensano che l’esperienza del fallimento rivoluzionario del Partito Socialista in Italia debba essere accettata come una lezione di portata internazionale; non si sono affatto rammaricati che la “questione italiana” sia servita a smascherare, dopo gli opportunisti serratiani, i falsi comunisti di altri paesi, come Levi e co.» .

Questa linea di totale ed irrevocabile rottura con il “centrismo” italiano fu tuttavia sconfitta: il III Congresso dell’Internazionale Comunista, alla fine di giugno 1921, stabilì che si dovevano promuovere i passi necessari per fondere il PSI, epurato degli elementi riformisti e centristi, con il PCd’I in una sezione unificata dell’Internazionale Comunista”. Fusione che né socialisti massimalisti né comunisti mostrarono di voler attuare.

Il IV Congresso internazionale comunista del dicembre dell’anno successivo ordinò la fusione “entro tre mesi” dei comunisti e dei socialisti internazionalisti (da poco separatisi dai riformisti). Fusione che fallirà nuovamente per le resistenze tanto dei socialisti (eccettuati i “terzini”), quanto dei comunisti (eccettuata la destra di Tasca). Tanto che lo stesso CE dell’IC ad un certo punto preferì rimandarla sperando che i “terzini”, minoritari all’interno del PSI, potessero conquistare almeno la maggioranza del massimalismo.

Nel frattempo gli effettivi socialisti, sotto i colpi della reazione fascista, erano collassati ad un decimo di quanti erano nel ’21, e lo stesso partito comunista, malgrado fosse l’unico ad aver predisposto una struttura clandestina, e quindi potesse meglio difendersi, ne era tuttavia a sua volta pesantemente affetto.

Cosicché quando, nel 1924, anche grazie alla sostituzione – fortemente voluta dalla dirigenza del Comintern della direzione di sinistra del PCI con quella del “centro” gramsciano, la fusione finalmente ebbe luogo, solo un drappello limitato di socialisti massimalisti (il numero effettivo di militanti è stato a sua volta oggetto di dibattito e di polemica), passò nelle file dei comunisti, e ben poco esso poté apportare in termini di forza reale in una situazione ormai definitivamente compromessa. Ciò senza negare che, come attestano i rapporti di polizia, l’acquisizione di diversi bravi organizzatori, tra cui lo stesso Serrati, portasse ad un incremento della presa sindacale del PCI.

Parallelamente, come ben si sa, si erano sviluppate le divergenze tra i dirigenti dell’Internazionale e la “sinistra comunista italiana”, a partire dalla tattica del “fronte unico” (che la dirigenza bordighiana del PCd’I intendeva limitare al terreno sindacale); divergenze approfonditesi al Quarto Congresso dell’IC di fronte all’ambigua parola d’ordine del “governo operaio”. Seguirne lo sviluppo ci porterebbe troppo lontani dal tema della scissione di Livorno ma non va dimenticato che la diatriba sulle modalità di nascita del PCd’I s’intrecciano indissolubilmente a quelle questioni di tattica: sono infatti parte di un approccio complessivo all’agire comunista che divise i bolscevichi e la sinistra comunista italiana fin dal Secondo Congresso di Mosca, allorquando, mentre la “Frazione comunista astensionista” del PSI suggeriva l’abbandono del parlamentarismo quale condizione ottimale di selezione dei sorgenti partiti comunisti, i compagni russi avevano insistito sulla prassi del “parlamentarismo rivoluzionario” come – diciamo così – vaccino contro le tendenze “infantili” ed “ultrasinistre” del movimento operaio.

Sennonché il lungo braccio di ferro sulla questione della costituzione del PCI e della fusione coi “terzini” investiva immediatamente una problematica non meramente tattica, bensì squisitamente di principio: la natura del partito comunista ed il suo processo di formazione.

Non potendo dar luogo ad una disamina dettagliata del dibattito internazionale intorno alla “questione italiana”, ci limiteremo qui a tentar di riassumere leragioni degli uni e degli altri.

Le ragioni del Comintern

Il PCd’I si vantò allora – giustamente – che la stragrande maggioranza dei giovani socialisti aderì alla mozione comunista, e che il 98 per cento dei militanti della nuova sezione del Comintern erano proletari, restando nel PSI i vecchi militanti della tradizione socialista e gli intellettuali. È bene ricordare tuttavia che l’adesione giovanile subì nei mesi successivi un pesante ridimensionamento, e che non erano certo tutti intellettuali, anzi, quelli che rimasero nel PSI. Al Congresso della CGL del febbraio 1921, le posizioni espresse dal PSI raccolsero 1,4 milioni di sostenitori, quelle del PCd’I 430 mila; in altre parole l’influenza del PSI sui lavoratori organizzati rimaneva di gran lunga superiore a quella comunista. Inoltre, per quanto l’importanza di tale fattore non vada assolutamente enfatizzata, è pur sempre vero che alle elezioni del maggio 1921 i comunisti raccolsero 300 mila voti, contro il milione e 600 mila del Psi.

Da simili dati si poteva dedurre, ed è così infatti che la pensavano i bolscevichi, che qualcosa a Livorno non aveva funzionato, o quanto meno che il PCd’I rischiava seriamente di trovarsi, nel momento in cui si intensificava l’offensiva delle camicie nere di Mussolini, in un pericoloso cul-de-sac, mentre la maggior parte di quello stesso proletariato che aveva animato il “Biennio Rosso” rimaneva legato alla vecchia tradizione socialista, e da essa veniva reso impotente.

Dirà nel ’24, in occasione della “Conferenza di Como” il “destro” Tasca:

“La scissione di Livorno ebbe una scarsa ripercussione nelle masse lavoratrici, che nella loro maggioranza non ne compresero il senso e la necessità. La ragione principale di ciò va cercata nel fatto che la scissione fu la conseguenza di una volontà generica della sinistra del PSI di fondare un partito «veramente rivoluzionario». Benché l’esperienza recente dell’occupazione delle fabbriche abbia accelerato il processo di formazione del nuovo aggruppamento politico, questo non poté presentarsi alle masse come l’esponente di un preciso atteggiamento assunto nel periodo dal settembre-ottobre 1920, durante il quale non assunse proprie responsabilità e non si distinse, in genere, dal grosso della corrente «massimalista». […] Inoltre il fatto che la linea di frattura avvenne – per colpa di Serrati e dei centristi – troppo a sinistra, lasciò al di là un numero considerevole di elementi proletari sinceramente terzinternazionalisti e impedì al PC di diventare più rapidamente l’organo dirigente dell’azione politica delle masse operaie e contadine d’Italia. Per queste ragioni noi crediamo che sia stato un male – inevitabile, ma un male – dal punto di vista della situazione oggettiva italiana d’allora e d’oggi, che la scissione sia avvenuta così come è avvenuta”.

Abbiamo citato Tasca non tanto per l’importanza della sua posizione di “destra”, che sempre fu marginale all’interno del PCI, ma perché ci sembra compendiare molto appropriatamente il sentire dei dirigenti bolscevichi – Lenin in testa, fin che fu in grado di farsi sentire – di fronte alla situazione creatasi dopo Livorno. Forse colui che meglio espresse la ratio al fondo della volontà della dirigenza dell’IC di veder unificate le forze del proletariato italiano in un partito che includesse anche la supposta “parte sana” del massimalismo fu però Trotzky, che nel 1921, al Secondo Congresso dell’Internazionale Giovanile così la spiegava:

« Al III Congresso le critiche più dure sono state lanciate dai compagni italiani. Queste critiche erano dirette soprattutto contro la risoluzione congressuale sul Partito socialista italiano. […] Secondo il compagno Tranquilli, non ci si può aspettare niente dal partito socialista, dato che non solo i suoi dirigenti (che sono pacifisti e riformisti) ma anche le masse che seguono questi dirigenti, non sono rivoluzionarie. Io credo che questo atteggiamento verso il PSI sia completamente ssbagliato. […] se i dirigenti del Partito [socialista] vogliono dimostrare che sono schierati con Mosca […] al fine di ingannare le masse, allora non resta altro che provare che le masse stesse hanno costretto questi dirigenti ad assumere un atteggiamento tanto ipocrita. Non le masse che sono schierate con il Partito comunista, e nemmeno quelle senza partito, ma le masse che costituiscono la base del Partito socialista stesso. […] questi lavoratori che spingono Lazzari e Maffi a venire a Mosca, non sono della peggior specie, e che dovremmo cercare di conquistarli alle nostre posizioni.

« In questa sede è già stata ripetuta più volte la considerazione sulle porte lasciate aperte al PSI. Ovviamente l’impressione è che le porte siano spalancate per chiunque voglia entrare. In realtà la situazione è un po’ più complessa. Noi abbiamo deciso di chiudere le porte per due o tre mesi, durante i quali il PSI dovrà convocare un congresso del Partito e discutere pubblicamente un certo numero di questioni. Prima di tutto deve espellere i riformisti dalle sue file. […] Quando i partiti espulsi dalla III Internazionale vengono da noi e ci dicono: “Desideriamo tornare con voi“, noi replichiamo: “Se siete pronti ad accettare la nostra piattaforma e ad eliminare al vostro interno i sabotatori politici, non ci rifiuteremo di accogliervi fra noi“. È questo che realmente vi preoccupa, compagni? Citatemi un esempio, ditemi un modo diverso in cui possiamo conquistare i lavoratori che ancora seguono questi dirigenti. Voi dite che dovremmo aspettare la prossima occasione, il momento in cui il Partito socialista rivelerà ancora la sua natura traditrice, e allora le masse verranno verso di noi. […]. Il compagno Polano ha detto che è necessario rompere completamente con i partiti riformisti. Ma voi, compagno Polano, proprio voi ci avete detto che di 100.000 membri del Partito socialista, ne sono rimasti solo 60.000. Chiedetevi perché questi 40.000 che hanno abbandonato il loro Partito, non hanno raggiunto il vostro. […] Se oggi dicessimo loro: “Non vogliamo avere rapporti con voi“, che impressione ne trarrebbero i vecchi membri del Partito, quei 40.000 che sono diventati scettici? Essi ci comunicano il loro desiderio di aderire all’Internazionale, ma noi diciamo loro: “No, non vogliamo avere rapporti con voi“. Tutto ciò faciliterà il vostro compito di conquistare le masse lavoratrici alla causa dell’Internazionale? Niente affatto! Questo atteggiamento rafforzerebbe solo il conservatorismo delle masse operaie […]. Infatti rifiutarsi di accettare nell’Internazionale quei che desiderano entrarvi, equivarrebbe a far loro il peggiore degli affronti. È una caratteristica della classe operaia in generale, e del Partito socialista italiano in particolare, il fatto che un lavoratore acquisti fiducia nell’organizzazione che gli ha fatto prender coscienza e lo ha formato. Questo conservatorismo organizzativo ha i suoi effetti negativi e positivi. Se noi respingiamo un operaio, rafforzeremo l’aspetto negativo del suo conservatorismo organizzativo. No, con una linea politica simile, non conquisterete mai la maggioranza del proletariato italiano. Mai! Voi state parlando qui nello spirito del settarismo, non in quello della rivoluzione.[…]

« Sarebbe certamente molto più semplice gettare dalla finestra tutti gli elementi incerti e dire: “Rimarremo una piccola setta, ma in questo modo saremo totalmente puri“. Da un lato, voi insistete sempre sulle azioni rivoluzionarie; ma dall’altro voi volete che il Partito sia formato solo da elementi chimicamente puri. […] Voi non state tentando di allargare la vostra base di massa. Una tattica non può essere unilaterale, deve tener conto dei mezzi per conquistare le masse [corsivi nostri]. È un compito molto difficile. Ma voi dite: “No, io rimarrò con la mia famiglia, le masse non sono sufficientemente pure per me, aspetterò che le masse entrino gradualmente nel Partito in piccole dosi omeopatiche“. […] al giorno d’oggi, con i grandi eventi che si stanno verificando, le masse sono educate dagli eventi stessi. E noi dobbiamo uniformarci alla situazione […]

« Rispetto agli sviluppi della situazione italiana nell’immediato futuro, io penso che la nostra tattica verso il PSI non lo farà entrare al completo nelle nostre file, essa tuttavia non sarà infruttuosa, ma provocherà una scissione. […] Voi potete dire che gli elementi che usciranno dal PSI non saranno abbastanza puri per voi.[…] Voi insistete che tra voi e loro non c’è niente in comune. Ma non saremmo mai diventati un Partito comunista se avessimo contato solo su quei lavoratori che volevano seguirci a titolo individuale. No, con simili metodi, non conquisterete mai la maggioranza della classe proletaria in Italia. »

Certo le speranze riposte sull’evoluzione del PSI erano in gran parte illusorie, ed il PCd’I non mancò di sottolinearlo. Tuttavia si colgono nelle parole di Trotzky, oltre ad una preoccupazione più che legittima di isolamento del giovane partito comunista, un metodo politico la cui sostanza sta nell’analizzare i rapporti di forza tra le classi e i partiti, e nel formulare l’azione comunista in base alla modificazione più favorevole possibile degli stessi, sebbene questa azione possa formalmente contraddire la linearità delle posizioni di principio.

Per i bolscevichi, come la critica radicale della democrazia borghese non autorizzava a derivarne sillogisticamente la rinuncia all’educazione politica di massa favorita dalla partecipazione alla lotta parlamentare, così la possibilità (anzi a ben vedere la assoluta necessità) di conquistare i lavoratori tuttora influenzati e paralizzati dal PSI raccomandava estrema cautela e tatto nella polemica politica: la divisione del proletariato italiano di fronte ai colpi della reazione andava scongiurata; la chiarezza non andava raggiunta al prezzo della sconfitta: era un bene da perseguire ai fini della vittoria e non costi quel che costi. La rottura con la socialdemocrazia non era che un primo passo. Dopo di che bisognava conquistare le masse: “avere la spada – cioè il partito comunista, spiegava Trotzky – non è sufficiente, bisogna che sia affilata, e non basta che sia affilata. Bisogna saperla usare”. Dopo aver rotto con Turati – raccomandava Lenin – “alleatevi con lui”. L’obiettivo non doveva essere la conquista della purezza ma delle masse. Il tentativo di guadagnare al comunismo i lavoratori del PSI anche a prezzo di una fusione e la tattica del “fronte unico” erano parte di una sola strategia secondo la quale un passo avanti del movimento reale contava più della chiarezza formale di un programma o dei confini netti dell’organizzazione.

Le ragioni della Sinistra Comunista italiana

Nella visione della dirigenza del PCd’I le priorità si rovesciano: la preoccupazione principale appare quella di rifondare radicalmente l’organizzazione politica del proletariato italiano amputando, all’occorrenza, parti sane dei suoi organi pur di estirpare il cancro opportunista in ogni sua forma. Non solo nella scissione ma oltre la scissione. Il partito non era ancora nato e già si affermava:

“la scissione non può impedire che nuclei di opportunisti passino nascostamente nelle sue [del partito comunista] file. Una revisione che succeda immediatamente alla costituzione del Partito Comunista, il quale non sorge ex novo ma risulta formato di gruppi preesistenti alla sua formazione, renderà possibile la completa epurazione della sua compagine. Allora soltanto il partito potrà incominciare a funzionare aprendo le sue sezioni alle iscrizioni dei nuovi aderenti.” (Relazione della Frazione Comunista al Congresso di Livorno del PSI sull’indirizzo politico del Partito).

Ispirato dalla sua voce più autorevole e coerente, quella di Amadeo Bordiga, il gruppo di giovani dirigenti comunisti – sordo alle critiche che vengono dall’estero – tira dritto per la strada intrapresa, e, non pago del risultato di Livorno, affonda ancora di più il bisturi sulle carni del partito appena nato:

“Il nostro è un piccolo partito – scrive Bordiga nell’articolo Il nostro Partito1. Non tutti coloro che erano in un primo tempo incerti sulla attività e sulle nostre attitudini hanno creduto di passare nelle nostre file, e sono rimasti fuori dal nostro e dal Partito socialista. Ciò è stato un bene. Altri ne allontaneremo in occasione della prima revisione, per la quale daremo a giorni le norme. I compagni buoni e fedeli saranno incoraggiati dalla nostra serietà. È ben difficile trovare un partito che – nel momento stesso in cui si organizza – compie amputazioni e revisioni [corsivi nostri].”

Questo sacro furore anti opportunista, tipico di tutta l’estrema sinistra occidentale – osservarono inizialmente indulgenti i comunisti russi – era ovviamente dovuto ai violenti dolori che avevano accompagnato il parto dei nuovi organismi comunisti. Ma non era questa la lettura di Bordiga e dei suoi compagni alla testa del partito. Per loro si trattava di portare il movimento operaio in un altro pianeta, in un’epoca altra, dove occorrevano non solo criteri diversi, ma un nuovo tipo di militante.

“Soltanto i comunisti – continuava Bordiga nell’articolo testé citato – possono compiere atti del genere sul proprio organismo: essi non hanno alcuna aspirazione effimera, aborriscono le molte, le troppe adesioni [corsivi nostri]”. […] Siamo nella guerra guerreggiata, ed anche per noi e per i nostri militi vige un codice di guerra”.

Non è dunque l’effetto immediato del proprio agire sui rapporti di forza ciò che deve preoccupare i comunisti (essi “non hanno alcuna aspirazione effimera”), bensì la nascita di un organismo i cui caratteri e confini debbono essere non solo netti, ma stabiliti una volta per tutte.

Sarebbe certo ingiusto attribuire alla Sinistra Comunista italiana un disinteresse verso gli esiti della battaglia sul campo in nome di una purezza fine a sé stessa. Essa ritiene che si tratti dell’unica via per giungere, presto o tardi che sia, alla vittoria finale, impossibile senza un partito da cui sia stato snidato ogni residuo che potrebbe ricondurre all’indecisione nell’azione o peggio alla ricaduta nell’opportunismo. In questo senso essa mette in primo piano un’esigenza reale della lotta, un’esigenza permanente, valida per i momenti di ascesa come – e forse ancora più – per i momenti di ritirata, quella di un partito “compatto e potente”, come fu detto allora. Pertanto non v’era

“da prendere nemmeno in considerazione la possibilità di unificazioni sul genere di quella di Halle, di aggregazioni al nostro partito comunista di blocchi staccatisi dall’altro partito; e ciò sia per ragioni internazionali di organizzazione del movimento comunista, sia per la nostra concezione del processo di formazione del partito comunista in Italia. […] le cose non potevano andare diversamente da come sono andate, col distacco di Serrati e dei suoi dai comunisti, è altrettanto per noi indiscutibile che è un vantaggio per la causa comunista che le cose siano andate così, e non altrimenti [corsivi nostri]”2.

Per la sinistra comunista italiana è quella di Livorno la strada maestra da seguire, non quella di Tours e di Halle. Senza un partito omogeneo e altamente selezionato la vittoria è impossibile, perciò andava abbandonato ogni scrupolo di perdere momentaneamente il contatto con la massa: qualsiasi manovra tattica o diplomatica volta a conquistarla assieme a dirigenti esitanti ed ambigui porta alla sconfitta. È solo contro questi dirigenti che la massa può essere utilmente acquisita alla prospettiva rivoluzionaria.

Se Levi aveva definito Livorno una scissione “meccanica”, Bordiga rispedisce l’accusa al mittente:

“ I criteri che devono servire di base nel giudicare della efficienza dei partiti comunisti devono essere ben diversi da un controllo numerico ‘a posteriori’ sulle loro forze in rapporto a quelle degli altri partiti che si richiamano al proletariato. Quei criteri non possono consistere che nel definire esattamente le basi teoriche del programma del partito, e la rigida disciplina interna di tutte le sue organizzazioni e dei suoi membri [corsivi nostri] […] Ogni altra forma di intervento nella composizione dei partiti, che non derivi logicamente dalla applicazione precisa di tali norme, non conduce che a risultati illusori, e toglie al partito di classe la sua più grande forza rivoluzionaria, che sta appunto nella continuità dottrinale ed organizzativa di tutta la sua predicazione e la sua opera”.3

A questa logica i bolscevichi risponderanno, riferendosi alla tattica adottata dai comunisti italiani al Secondo Congresso di Roma (ma il discorso può essere ben esteso alla questione del partito e della fusione):

“I ragionamenti di questo genere hanno un solo scopo: diminuiscono, banalizzano la necessità della lotta per la conquista della maggioranza della classe operaia, cioè relegano in secondo piano il compito più importante che incombe ad un partito giovane come il PCd’I. Invece di dire al partito: lotta per ogni singolo operaio, tentativo di conquistarlo, tentativo di conquistare la maggioranza della classe operaia, le tesi forniscono pretesti dottrinali intesi a provare che il problema non è cosi urgente. Vi è in questo un grave pericolo, di cui l’Esecutivo, senza indietreggiare davanti ad alcun mezzo, avvertirà il partito”.4

A Livorno, Turati aveva ammonito gli uomini che si apprestavano a fondare il partito comunista che la via apparentemente “più lunga”, quella dell’evoluzione riformista verso il socialismo, era in realtà la “più breve”, perché “la sola possibile”. Bordiga, con un determinismo speculare a quello di Turati, ritorcerà i timori dell’Internazionale di fronte alla solitudine minoritaria del PCI, affermando viceversa l’intrinseco “valore dell’isolamento” e invitando a deporre ogni preoccupazione di influire con mezzi contingenti sui rapporti di forza:

“Altri potrà credere di avere una via più breve. Ma non sempre la via che appare più facile è la più breve, e per ben meritare della rivoluzione è troppo poco avere soltanto “fretta” di “farla”.5

Un ragionamento non privo di razionalità e di fascino. Ma l’esperienza rivoluzionaria russa e il fallimento di quella tedesca, e a maggior ragione le ancora più brucianti lezioni dell’”Azione di Marzo” erano lì a dimostrare che se i comunisti non devono necessariamente optare per la via “più breve” , parimenti essi non possono nemmeno fidarsi di quella “più diritta” e più diretta. La storia della lotta di classe non obbedisce a norme rigidamente deterministiche, seguendo traiettorie già scritte; è piuttosto sottoposta, se si può fare un’analogia scientifica – rischiosa come tutti i paragoni tra campi diversi – a leggi di carattere “biologico”, dove – come lo stesso Marx ricorda a proposito delle lotte di classe in Francia – la casualità stessa e l’atteggiamento degli attori sul proscenio rivestono un ruolo importante. Dove dunque predeterminare in anticipo – come Bordiga esigeva – ogni situazione e corrispondente azione del partito comunista risulta impossibile.

« Il principale errore di Bordiga – dirà acutamente Bucharin durante il IV Congresso dell’IC – consiste nel fatto che rigetta la dialettica vivente nel tentativo di afferrare l’ignoto grazie a formule immutabili. Prima di tutto, egli dice, prefigureremo ogni possibile eventualità, elaborando una varietà di misure cautelative per essere certi di non commettere peccati. Ma la vita è complicata e non si può determinare tutto in anticipo ».

Resta il fatto che se l’intransigenza bordighiana non evitò la crisi del PCI, crisi di cui la direzione del Comintern fu in parte responsabile, il pericolo di una degenerazione dell’Internazionale, contro cui Bordiga aveva lanciato l’allarme, divenne in breve volger di anni una tremenda realtà.

Occorre però guardarsi dal trarre conclusioni meccaniche e semplicistiche.

Insegnamenti sì, ma quali?

Purtroppo le circostanze impedirono che potesse darsi controprova della maggiore o minore bontà dell’uno o dell’altro metodo: quello imposto dall’Internazionale, tendente a dare vita in Italia ad un partito influente(che non si realizzò), e quello dei sinistri italiani di perseguire invece piuttosto un partito compatto e libero da ogni opportunismo e da ogni residuo socialdemocratico, che fu frustrato ed ostacolato.

In primo luogo perché la formazione del partito comunista prese piede in una fase che a posteriori ci si rese conto essere di riflusso ed involuzione del movimento operaio italiano dopo le delusioni e le sconfitte del “Biennio Rosso”. In secondo luogo perché le resistenze dei comunisti italiani verso la fusione da un lato, e le pressioni del CE dell’IC in senso opposto dall’altro, fecero giocoforza assumere al PCI una postura contraddittoria di fronte alla base socialista e comunista. Infine per le drammatiche condizioni in cui i “terzini” entrarono nell’organizzazione comunista: condizioni di vera e propria sconfitta e rinculo delle organizzazioni proletarie, inclusi il PSI e il PCI.

Data l’opacità dei risultati (o non-risultati) del braccio di ferro di allora, a cent’anni di distanza, la diatriba continua sul piano storiografico.

Da una parte stanno – e sono di gran lunga i più – quanti addossano al minoritarismo livornista la responsabilità storica delle disgrazie operate dal ventennio fascista; dall’altra v’è l’assai sparuto drappello – circoscritto quasi esclusivamente a piccoli gruppi di seguaci di Bordiga – di coloro che vedono nello sgretolamento della selettività di Livorno uno dei punti d’inizio della dégringolade che portò alla degenerazione della Terza Internazionale.

Orbene, benché la nostra simpatia vada senz’altro a questi ultimi, che son tra i pochi che abbiano saputo tenere salda la bandiera dei principi comunisti nell’imperversare della controrivoluzione e della degenerazione stalinista, è nostra convinzione che le cose in questa materia siano tutt’altro che semplici e lineari.

Da una parte la degenerazione dell’Internazionale solo con grande forzatura può farsi risalire al “manovrismo tattico” che i bolscevichi tentarono invano di insegnare ai comunisti occidentali. Molto di più essa dovette all’isolamento della rivoluzione russa, la quale, non arrivando ad estendersi in Occidente, venne soffocata dal peso schiacciante – nell’immenso, arretrato paese – della piccola produzione contadina, e dall’erompere delle forme borghesi di produzione, che costituirono la piattaforma di lancio dello stalinismo. Ad affossare la rivoluzione russa e il Comintern fu il fallimento della rivoluzione in Occidente, e se un eccessivo manovrismo tattico vi ebbe un ruolo, ruolo ben maggiore vi ebbe la debolezza, l’inesperienza, il ritardo, l’infantilismo dei comunisti occidentali, che contribuirono a rendere tale manovrismo o sterile, imbrigliandolo come in Italia, o patologico, come in Germania.

In realtà l’una e l’altra opzione, quella del Comintern e quella della sinistra comunista, per avere una chance di vittoria, avrebbero avuto bisogno, paradossalmente, dello stesso elemento: una nuova ondata rivoluzionaria che non si realizzò.

Più che cercare di stabilire chi allora avesse ragione o torto (il che, visto come sono andate le cose, ossia vista la pesante sconfitta subita dall’ondata rivoluzionaria del primo dopoguerra, non può essere certo dimostrato con precisione matematica) sembra a noi importante – importantissimo – dar conto della problematicità di quel dibattito, in sé denso di insegnamenti.

***

NOTA BIBLIOGRAFICA

Indico qui di seguito esclusivamente quelle fonti da cui ho tratto direttamente citazioni o fatti, senza che ciò implichi alcuna condivisione di giudizio storiografico. Fa eccezione il lavoro di Carlos N. Svidler, che è stato una notevole sorgente d’ispirazione.

C. Basile, Gli “aspetti negativi” della nascita del Partito Comunista, 2016.

G. Bergami, PARTITO E PROSPETTIVA DELLA RIVOLUZIONE COMUNISTA IN BORDIGA, “Belfagor”, Vol. 35, No. 3 (31 MAGGIO 1980), pp. 263-278.

T. Detti, La frazione internazionalista e la formazione del P.C.I, “Studi Storici”, Anno 12, No. 3 (Jul. – Sep., 1971), pp. 480-532.

A. Erpice, Serrati, il Massimalismo e la nascita del Partito Comunista d’Italia, https://www.marxist.com/serrati-il-massimalismo-e-la-nascita-del-partito-comunista-d-italia.htm

A.Lepre, Primi anni del P.C.I., “Studi Storici”, Anno 9, No. 2 (Apr. – Jun., 1968), pp. 358-403.

R. Mantovani, GRAMSCI, BORDIGA, SERRATI: TRE LINEE A CONFRONTO, http://www.progettocomunista.it/12-04MR5MantovaniPdci.htm

V. Saldutti, Amadeo Bordiga – Ascesa e caduta di un rivoluzionario, https://www.marxist.com/amadeo-bordiga-ascesa-e-aduta-di-un-rivoluzionario.htm

P. Spriano, Storia del Partito comunista Italiano I: da Bordiga a Gramsci, Torino, 1976.

C. N. Svidler, Revolución y Contrarrevolución en Italia y Alemania (1914-1923), 2019, https://pasadoypresentedelmarxismorevolucionario.net/tabla-de-materias/

A. Tasca, Schema di tesi della ‘minoranza’ del CC del PCI, “Lo Stato operaio”, 15 maggio 1924

L.Trotzky, Scritti sull’Italia, https://www.marxists.org/italiano/trotsky/scrita/index.htm

A. Vittori, I primi cinque anni di vita del Partito Comunista d’Italia e l’Internazionale Comunista, https://www.marxismo.net/index.php/teoria-e-prassi/movimento-operaio-italiano/505-i-primi-cinque-anni-del-pcd-i-e-l-internazionale-comunista

Storia della sinistra comunista III, 1920-1921, Milano, 1986.

Storia della sinistra comunista IV, 1921-1922, Milano, 1997.

Un discorso a parte, che esula da queste pagine, meriterebbe il recente LIVORNO VENTUNO, A CENT’ANNI DALLA SCISSIONE DI LIVORNO LA NASCITA DEL PARTITO COMUNISTA D’ITALIA, 21 GENNAIO 1921, edito da “Il pungolo rosso” e da “Pagine marxiste”.

1 “Il Comunista” del 7/4/1921.

2 A. Bordiga, Levi ed i comunisti tedeschi, “Il Comunista” 24/2/1921.

3 A. Bordiga, Partito e azione di classe, 1921.

4 Contributo del Presidium dell’Esecutivo dell’IC al progetto di programma del PCd’I, marzo 1922.

5 A. Bordiga, Il valore dell’isolamento, “Il Comunista” del 24, 31/7 e 7/8/1921.

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