India: sfruttamento e lotte delle lavoratrici e dei lavoratori domestici ai tempi del covid 19 – S. Chakraborty

Il lavoro domestico nel mondo: un inferno a scala internazionale. Invisibili e trattate come esseri subumani, milioni di donne emigranti dalle campagne alle città, dal Sud al nord del mondo hanno visto precipitare, con il lock down, la loro condizione di vita e di lavoro. In questa testimonianza dall’India (segnalataci e tradotta da Giulia L.), un lavoro massacrante e l’esposizione a soprusi e violenze da parte degli assuntori non ha risparmiato a loro e alle loro famiglie un futuro di precarietà e di miseria che il lock down ha reso ancora più intollerabile.

Covid-19 ha messo a nudo le lotte e lo sfruttamento che le lavoratrici e i lavoratori domestici devono affrontare

Satarupa Chakraborty*

Dal rapporto dell’Economic and Political Weekly risulta che in India ci siano più di 50 milioni di lavoratrici e lavoratori domestici, una forza lavoro costituita per oltre il 75% da donne.

A Bangalore, capitale del Karnataka, uno stato dell’India meridionale, ci sono circa 400.000 lavoratrici e lavoratori domestici. Il loro lavoro non è tuttavia riconosciuto, e così sono privati dei diritti sindacali, di condizioni di impiego regolari e del rispetto, un fatto che è emerso con ancora maggiore evidenza dall’inizio della pandemia.

I lavoratori migranti dell’India, che si spostano dalle aree rurali a quelle urbane in cerca di un’occupazione remunerativa, mantengono le proprie famiglie nei villaggi con rimesse che rappresentano gran parte del loro salario. Vivono in anguste baracche fatte di teloni e lamiere, in una città tentacolare in cui il costo della vita è crescente.

In India non esiste una legislazione nazionale che garantisca ai lavoratori domestici condizioni di impiego regolari, un salario minimo e condizioni di lavoro decenti. Le lavoratrici sono spesso alla mercé dei loro “datori di lavoro”, il che può significare minacce, intimidazioni e violenza; alla maggior parte delle lavoratrici e dei lavoratori domestici il riposo settimanale, festività o ferie retribuite, anzi nei giorni di festa il loro lavoro aumenta fortemente. Inoltre non hanno diritto a nessun sussidio sociale ed economico da parte dello stato.

La segretaria generale del sindacato dei lavoratori domestici, affiliato al CITU (Centre of Indian Trade Unions) riferisce che le minacce di violenza più comuni emergono quando una lavoratrice chiede un aumento del salario o si rifiuta di svolgere compiti diversi da quelli concordati nelle trattative verbali al momento dell’assunzione, o quando una lavoratrice resiste agli abusi sessuali del “datore di lavoro” maschio. Intimorite dalla minaccia che costui possa sporgere una denuncia di furto alla polizia contro di loro (anche se sono innocenti), la maggior parte delle lavoratrici domestiche evitano di sporgere denuncia, temendo di perdere il lavoro, di subire ritorsioni su di loro o sulle loro famiglie.

La lotta dei sindacati e delle organizzazioni per salvaguardare i diritti e la vita delle lavoratrici e dei lavoratori domestici ha spinto il governo centrale a introdurre nel 2017 la Legge sui lavoratori domestici (Regolamentazione del lavoro e Previdenza Sociale).

Ciò nonostante, non solo il loro lavoro è invisibile, ma loro stesse/i sono visti come persone subumane.

Occorre combattere questa mentalità e le pratiche disumane che ne derivano con una lotta organizzata delle lavoratrici domestiche per risolvere le loro angustie quotidiane e far progredire la loro vita sociale.

[*Satarupa Chakraborty è un’attivista della AllIndia Democratic Women’s Association (AIDWA). È una Globetrotter/Peoples Dispatch fellow e una ricercatrice al Tricontinental: Institute for Social Research ed è attualmente basata nell’ufficio di Nuova Delhi in India.]

Kajita (28 anni) e Noor (45 anni)

Kajita (28 anni) e Noor (45 anni) sono lavoratrici giunte dal Bengala occidentale a Bangalore, metropoli di 8,5 milioni di abitanti. Abitano in una baraccopoli nell’area di Thubarahalli, a est della città, celata dagli edifici che stanno sorgendo in un quartiere di lusso che collega i due maggiori centri Information Technology (IT), Marathahalli e Whitefield.

Prima che il lockdown nazionale fosse annunciato nel marzo 2020, Kajita iniziava la sua giornata di lavoro alle 4:45 e tornava a casa dopo le 21. Lavorava per più di 15 ore al giorno in 10 famiglie. Noor andava a lavorare alle 5:45 del mattino e tornava verso le 18:30. Lavorava in quattro famiglie: otto ore in una casa e poi divideva il resto del tempo lavorando in altre case. Una lavoratrice giovane, come Kajita, può lavorare in una dozzina di case per aumentare il suo reddito, invece, quelle più anziane, come Noor, di solito lavorano 8 o 12 ore con una sola famiglia e cercano di trarre da lì la maggior parte del loro reddito.

Il salario di Kajita e Noor proviene dal loro lavoro fisico pesante e sottovalutato. Prima dell’annuncio del lockdown in India il loro reddito bastava appena a sostenere se stesse e le loro famiglie.

Quanto hanno guadagnato in un decennio di lavoro non è bastato a migliorare il loro tenore di vita e neppure ha garantito loro durante la pandemia di rimanere in casa, senza rischi.

Quando è iniziato il lockdown, Kajita, Noor e le altre lavoratrici domestiche si sono trovate per più di quattro mesi senza lavoro. Uno dei “datori di lavoro” di Kajita le ha pagato i primi due mesi di salario ad inizio lockdown, mentre gli altri si sono rifiutati di pagarla, cosicché per diversi mesi ha perso circa il 90% del suo reddito mensile. Noor ha ricevuto la metà del suo salario per i primi due mesi del lockdown.

Attualmente Kajita guadagna 7.000 rupie (96 dollari) al mese – una drastica riduzione del suo reddito di oltre il 70% rispetto alle 30.000 rupie (413 dollari) al mese che guadagnava prima del lockdown. Noor ne guadagna 11.500 rupie (158 dollari) – un calo di quasi il 50% rispetto alle 20.000 rupie (275 dollari) al mese.

Se è calato il salario, la spesa delle famiglie è aumentata in proporzione al reddito. Anche durante il lockdown, Kajita e Noor hanno dovuto pagare 2.500 rupie (34 dollari) ciascuno per l’affitto delle loro baracche e le bollette elettriche, e per le taniche di acqua potabile, che non c’è negli slums.

Ad ottobre 2020, Noor ha riferito che sono riusciti a sopravvivere per più di due mesi, grazie ai pacchetti alimentari di un mese ricevuti da alcune organizzazioni come il Centro dei sindacati indiani e Bharat Gyan Vigyan Samiti. Non avevano mai visto questo tipo di miseria prima.

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